Inciucio. Ricordate chi introdusse questa parola nel lessico della cronaca politica? “Baffino”, il “Lider Maximo”, ovverossia Massimo D’Alema. Di giravolte voltagabbanesche e trasformismi e politiche dei due forni la storia repubblicana è piena, ma lo spettacolo cui stiamo assistendo in questi giorni rasenta la commedia dell’arte, che fosse solo un’invenzione letteraria sarebbe degna di Goldoni: ma, ahinoi, è invece la realtà fattuale della politica italiana: tolto il “cadreghino”, altre terga di altri colori lo stanno rioccupando e il verde che prima stava a fianco del giallo ora è stato rimpiazzato dal rosso. Ma le tonalità del rosso e del giallo, che dovrebbero simbolizzare forza, energia, vitalità, solarità, qui nella commedia dell’arte politichese rappresentano il peggio dell’occupazione del posto sull’autobus appena lasciato vacante. E’ l’inciucio 5 Stelle/PD, dove a fare l’occupante lesto (fante: nel senso della carta da giuoco) è il PD che prima occupava l’opposizione e il 5 S che, inane e meno lesto ma sempre fante, “tradisce” l’ex amor suo. Che spettacolo desolante quasi come un cimitero! Il cimitero della bella politica che fu. In questo scampolo d’estate nel pieno di una crisi di governo in fase di risoluzione provvisoria ci piace proporvi questa intervista #cultOFF al Vittorio nazionale, già ospite di un faccia a faccia con Edoardo Sylos Labini al Mondadori OFF di Piazza Duomo a Milano (Redazione).
Ci racconti un episodio OFF dell’inizio della tua carriera?
Era il 12 dicembre del 1974, il giorno della mia laurea in Filosofia. Avevo tutti 30 e lode e avevo fatto una tesi in Storia dell’Arte su Giovanni Buonconsiglio detto ‘il Marescalco’, pittore di fine ’400, inizio ’500. Tutto era buono, corretto, guardato con una certa attenzione dal relatore. Il giorno della discussione della tesi incontro la correlatrice, Anna Ottani Cavina, che dice addirittura che la tesi era precisa, minuziosa nelle date, quindi tutto tranquillo. Comincio la discussione, spiegando tutto quello che avevo fatto e vengo interrotto proprio dal relatore, che comincia a fare una serie di rilievi, di critiche, rincalzate proprio dalla Ottani Cavina! Preso tra due fuochi, non reagisco con bonomia e la discussione finisce in un incidente violentissimo, il relatore mi aggredisce, io rispondo… vengo pregato di uscire e quando rientro il Presidente della Commissione, Luciano Anceschi, mi conferma il 110 e lode!
Hai cominciato ‘alla Sgarbi’, hai sempre detto quello che pensavi, non sei mai sceso a compromessi con nessuno!
Avevo cominciato ancora prima, con il mio primo esame, che era di italiano. Un mio bravo professore, Walter Moretti, osò dare a me, che avevo sempre preso 9 o 10 nei temi, un 6– o 5½ in un tema su Giambattista Vico che avevo articolato molto bene; il fatto era che non aveva letto bene la mia calligrafia! Arrivammo all’esame, era il 1970, gli feci una sceneggiata rifiutando il voto e dicendogli che doveva imparare a leggere! Era molto timido, rimase molto turbato, ma ammise che aveva torto e mi diede 30 e lode. Il mio primo 30 e lode l’ho conquistato con la lotta e con la violenza dialettica, sostenendo che il voto basso – per me irricevibile, come le critiche alla tesi di laurea – era determinato dal fatto che non aveva letto bene la mia calligrafia e non poteva non riconoscere la bontà di alcuni collegamenti che avevo fatto e che mi sembravano degni di molta attenzione. Rivendicai, allora diciottenne, la mia dignità letteraria e la capacità di affrontare un tema come quello senza essere guardato come uno che lo affrontava in maniera insufficiente.
E di quelle meraviglie d’Italia, di cui parli nel tuo libro “Il Tesoro d’Italia”, la lunga avventura dell’arte?
Quello è un libro fondamentale, non tanto rispetto alle novità, perché non c’è alcuna novità sostanziale, che comunque destino a una rubrica su Sette del Corriere della Sera, in cui presento ogni settimana un’opera sconosciuta di un autore sconosciuto, opere interessanti trovate in luoghi nascosti o in depositi o scoperti nella ricerca di mercanti d’arte, ma degne di interesse. Questo è il divertimento sommo del mio lavoro. “Il Tesoro d’Italia” è invece la rappresentazione di quello che c’è davanti agli occhi di tutti, ma che è largamente ignorato, se non dagli studiosi. Gli argomenti sono organizzati secondo lo schema dei libri di testo di Storia dell’Arte, con la differenza che i libri di scuola sono generalmente freddi e meccanici nel presentare una Storia che sembra obbligatoria per come è costruita. Invece gli stessi temi, che rappresentano un tesoro che tutti dovrebbero conoscere, sono affrontati da me in una dimensione letteraria, o evocativa, o di racconto, in un ‘libro di testo’ per adulti che hanno finito le scuole. Come alla musica si arriva per desiderio, per scelta, la Storia dell’Arte si raggiunge quando a un certo punto, prendendo le guide del Touring, si comincia il giro d’Italia e ci si accorge dei grandi capolavori. “Il Tesoro d’Italia” è un ‘libro di testo’ per un ideale viaggiatore che ha dai 25-30 anni in avanti e che può godere delle emozioni che le opere d’Arte danno. Esiste la possibilità di raccontare l’arte attraverso le suggestioni, le emozioni e il piacere che essa trasmette. Nel suo bellissimo libro “L’uovo di Marx” Flaiano proponeva una soluzione per riuscire a frenare l’ondata montante del Comunismo, che dilagava nel mondo degli intellettuali e della scuola: renderlo materia scolastica obbligatoria, così le persone appena uscite da scuola non avrebbero più voluto sentirne parlare! Il mio libro sottende inoltre il concetto di economia legata all’arte: l’Europa ha proposto, tra i tanti limiti, delle quote – di patate, di arance, di latte – e ogni Paese deve limitare la produzione in rapporto agli altri. Le ‘quote d’arte’, essendo un presente già maturato e prodotto, non possono essere limitate, perché solo a Modena ci sono più opere d’arte che in tutta la Germania. Questo ci rende ricchi senza soggiacere al ricatto delle quote che dovrebbero limitare la quantità di bellezza, che in Italia è soverchia e quindi è un tesoro che altri non hanno. Dal punto di vista patrimoniale abbiamo una sconfinata ricchezza, il problema è di vederla e conoscerla, perché è nascosta, occulta, privata.
Quanto è importante oggi l’entrata del privato nel mondo artistico e culturale e dell’intrattenimento culturale italiano? Oggi ci sono incentivi come il ‘tax shelter’ e il ‘tax credit’ che esistono soltanto per il cinema, per l’intrattenimento culturale quale sarebbe la grande riforma che rivoluzionerebbe il mercato?
Lo Stato dovrebbe essere l’insieme dei beni che lo Stato possiede e degli interventi economici. Il privato, quando interviene attraverso finanziamenti e contributi per il bene pubblico, fa qualcosa non per sé ma per tutti, quindi il privato diventa Stato e il suo contributo deve essere accolto a cuore aperto. Da questo deriva che lo Stato non è l’articolazione delle diverse proprietà, ma la coscienza del bene: chi ha coscienza del bene rappresenta lo Stato perché assume su di sé la tutela, quindi se una Fondazione o qualunque ente privato contribuisce al bene pubblico, diventa Stato. Lo dice il concetto che è implicito nella parola ‘privato’, che significa ‘ciò di cui siamo privi’: siamo ‘privi’ di molti beni pubblici, spesso nascosti, chiusi, mal gestiti. Il Museo Guggengheim di Venezia, la più importante raccolta di arte contemporanea in Italia, la più visitata e quindi la più pubblica, è un museo privato americano, eppure funziona meglio dei musei pubblici! Nel concetto di ‘pubblico’ e ‘privato’ c’è l’equivoco della ‘proprietà’ del bene rispetto alla ‘coscienza’ del bene: chi ha la coscienza del bene agisce conseguentemente, fa il bene di tutti e quindi si fa Stato. Se una Fondazione, o qualunque attività privata, riesce a ottenere il risultato di rispondere alle esigenze dei cittadini, in quel momento essa è lo Stato, mentre lo Stato, con la sua negligenza rispetto a molti interventi e a molti luoghi, diventa privato, ovvero qualcuno che egoisticamente impedisce la conoscenza e il godimento dei beni a tutti.
Perché nessun Presidente del Consiglio ti ha mai nominato Ministro?
Mi hanno nominato Sottosegretario, dopodiché ho fatto il Vice Ministro, dopo un anno mi hanno rimosso, per ragioni politiche o ragioni personali. Berlusconi era una speranza politica non perché fosse bravo o avesse dei meriti, ma perché era fuori dall’establishment. Quello che nessuno ha capito è che in Italia la contrapposizione non è tra destra e sinistra, ma tra poteri consolidati e libertà. Il Popolo della Libertà ha indicato e stabilito la possibilità di gestire il bene pubblico senza raccomandazioni, lobby, iscrizioni al partito. Purtroppo Berlusconi non ci è riuscito, è fallito il tentativo di creare un potere alternativo a quello consolidato dei partiti, dei sindacati, delle organizzazioni. In quella dimensione io potevo diventare Ministro – e non lo sono diventato – perché sono fuori da ogni potere organizzato, da ogni protezione, tutela o garanzia legata alle tessere dei partiti.
Se dovessi rappresentare l’Italia politica di oggi con un quadro italiano?
Nessuna opera italiana è così indegna da rappresentare un paesaggio di rovina e disperazione. La rappresenterei con un quadro di Magnasco che rappresenta un furto al cimitero, della gente che ruba nei cimiteri e il diavolo che viene per portarli via.
La tua esperienza come Sindaco di Salemi è stata geniale, con le provocazioni dell’Assessorato all’Ebbrezza dato a Morgan, l’Assessorato al Nulla a Toscani. Ti ha lasciato l’amaro in bocca o rifaresti un’esperienza del genere?
Quello rappresenta la dimensione diabolica e violenta dello Stato. Uno Stato che finge di combattere la mafia e se la inventa per assumere dei titoli antimafia, come fanno alcuni magistrati, alcuni hanno combattuto la mafia veramente, altri invece hanno fatto un teatrino. Configurarsi il nemico o inventarlo per poterlo combattere è una delle cose più disgustose che abbia mai visto. È avvenuto a Salemi, dove hanno voluto riesumare la mafia, che era morta da più di 20 anni. L’ho detto anche a Napolitano: ero Sindaco di Salemi e nessuno mi ha chiesto nulla quando si è sciolto il Comune per mafia, come se la mia testimonianza fosse ininfluente. L’unico modo di battere la mafia è la bellezza, è la pedagogia, è la formazione delle persone. Hanno sciolto un Comune che era il più frequentato della Sicilia, ne parlavano in tutto il mondo e venivano da tutto il mondo, c’erano mostre con Caravaggio, Rubens, Van Gogh, Cézanne, Picasso, mai viste in un paese così piccolo. Un Comune sciolto per mafia – senza che naturalmente ci fosse nulla né prima né dopo a confermare questa ipotesi insensata – per credere allo schema manicheo delle ‘guardie e ladri’.