Rottamare “da destra” i poteri forti “de sinistra”

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Potrà piacere o no, ma Renzi ha fatto a sinistra quello che Berlusconi aveva fatto a destra trent’anni fa: un lavoro, vedremo quanto efficace e profondo, di laicizzazione e secolarizzazione della politica. Quella che ora ci si presenta è finalmente una sinistra non più a trazione massimalista (come era sempre stato nella nostra storia), tendenzialmente riformista, europea, occidentale, post-ideologica. Renzi, sicuramente approfittando di una serie di congiunture eccezionali, ha realizzato quello per cui aveva lavorato Craxi trent’anni fa: la rapida adesione al PSE ha suggellato anche simbolicamente questo passaggio. Non potendo in politica esistere il vuoto, presto anche la destra si riavrà dalla crisi congiunturale, momentanea, e nemmeno tutto sommato tanto acuta come è stata dipinta, in cui versa. E potrà allora forse iniziare anche da noi una normale dialettica politica. Eppure, a ben vedere, questo discorso, concernente la politica, non ha ancora avuto i riflessi auspicabili in campo culturale.

La cultura italiana di sinistra, che per i noti motivi di “egemonia” storica coincide quasi completamente con la cultura italiana ufficiale, è ancora immersa negli stilemi e nelle pratiche di pensiero del Novecento. È una cultura “ideologica”, politicizzata, escludente, pervasiva (si pensi ai manuali liceali o a ciò che si trova esposto nelle vetrine di una normale libreria Feltrinelli). È anche una cultura “teologica”, erede delle scholae medievali, con le sue liturgie, i suoi riti, i suoi officianti. Una cultura premoderna e antimoderna, nemica del mercato, della cultura d’impresa e della competizione, anche delle idee, allergica ad ogni critica. Una cultura dominata da una casta autoreferenziale e corporativa, autocertificatasi “superiore” anche moralmente alla comune umanità. Alla figura erasmiana dell’intellettuale umanista e cosmopolita, che aveva avuto nel liberale Benedetto Croce il suo campione primonovecentesco, si è sostituita quella dell’intellettuale organico e collettivo, cioè in definitiva pronto a prostituire le idee per la realizzazione della “virtù” o di un mondo (a parole) “migliore” o più “giusto”. Che poi si sia col tempo passati dal marxismo togliattiano al neoilluminismo scientista, dal laicismo azionista ad un radicalismo liberal di marca americana, e che tutte questi elementi si siano variamente intrecciati e mnewscolati fra loro, è indifferente: ciò che è sempre mancato da noi è una concezione laica, disinteressata, universalistica, della cultura; cioè proprio quell’autonomia del giudizio che è la cifra della modernità.

L’intellettuale si è così sentito investito di un compito che non gli spetta e che è in sé pericoloso: educare e illuminare il popolo o le masse, prepararle ad una rivoluzione delle coscienze volta a superare presunte tare nazionali. Una ostentata “superiorità morale” è stata la cifra dell’intellettuale e in genere del dirigente di sinistra nazionale. Una casta, quella degli intellettuali di sinistra, che domina le accademie, le fondazioni, si spartisce denari pubblici, succhia soldi dallo Stato in nome di una cultura che è per lo più postura e im-postura (si pensi a tutta la retorica sulla Cultura e sul Libro che “arricchisce” comunque). Una cultura che impone luoghi comuni e contenuti di pensiero che diventano una sorta di automatismi mentali indiscutibili e rassicuranti, pronti per l’uso di quel “ceto medio riflessivo” (da noi non si ha il coraggio di parlare di “opinione pubblica”) che è l’ossatura di una società moderna. È un potere forte, ma, secondo me, giunto al capolinea, anche per un effetto non intenzionale della crisi economica che, avendo drasticamente ridotto i fondi pubblici per la cultura (e credetemi non è un male!), ha aperto la strada a un cambiamento anche da questa parte. Oggi, faccio solo un esempio, anche un barone universitario non è in grado di garantire più nulla neanche al più bravo dei suoi allievi. È un potere ancora forte, quindi, ma con i piedi di argilla: credo che crollerà rapidamente per opera di qualche rottamatore. Costui non credo che possa essere Renzi, perché, in quest’ambito, si muove con molto disagio, anche se, con l’intuito, forse arriva alle stesse conclusioni a cui arriviamo noi.

Forse il rottamatore arriverà “da destra”, ove in questi anni si è molto arato, seppure senza una visione comune e generale del problema e con l’avallo importante ma solo formale di Berlusconi. Ciò che comunque è in gioco è una posta davvero importante: fermare il declino e il provincialismo italiani in ambito culturale. Iniziato nel dopoguerra e da allora andato sempre più accentuandosi, questo declino è forse l’ultimo lascito di quella “fabbrica delle ideologie” che fu il “secolo breve” nazionale.

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30.05.2014