Marco Mottolese, giornalista esperto di media relations, in Mi hanno inoculato il vaccino sbagliato. L’insostenibile solitudine del virus (edito da Castelvecchi) racconta l’era del Covid tra coprifuochi, restrizioni allentante e l’umanità che, ancora incredula, tenta di riprendersi la propria identità. L’autore «un po’ con la lente da Sherlock Holmes, un po’ con la penna di Georges Simenon – come scrive Silvestro Serra in un’attenta prefazione – ha cercato di capire, di interpretare, di dare un senso a questo tsunami».
Un titolo provocatorio: “Mi hanno inoculato il vaccino sbagliato”, parla d’amore e solitudine
Il titolo attinge al primo racconto, che si intitola proprio così. Ed è L’unico passaggio distopico o surreale del libro; poi, scrivendo, mi sono reso conto che la distopia era già nella realtà di tutti i giorni per cui non ho più avuto bisogno di usare la fantasia, mi è bastato aggirarmi per le strade, prendere i mezzi di trasporto, osservare e parlare con la gente per capire quanto fossimo immersi in una nuova surrealtà
L’epigrafe di Baricco nel libro pone una domanda precisa: «Se la Pandemia è una figura mitica, cosa volevamo pronunciare a noi stessi quando l’abbiamo disegnata?». Una lettura, la sua, che in merito al Covid offre anche delle risposte a questa domanda
Baricco ha scritto un libro coraggioso e stranamente non salito alla ribalta. Era la fine del 2020 e lui usciva con “Quel che stavamo cercando”. Per lui la pandemia è una figura mitica, più che un’emergenza sanitaria una costruzione collettiva che tende ad un unico scopo: manifestarsi. In questo senso il mio libro è un’ideale prosecuzione del suo pensiero; Baricco ha un concetto teorico di quanto accaduto, al quale si può anche credere; io piuttosto ho cercato di capire, nel mio modo di procedere, se davvero, come scrive, il virus è “figlio” del nostro sapere , quel “caotico materiale delle nostre paure, convinzioni, memorie e sogni”
Come si diventa Covid teller?
Covid Teller non si diventa, credo. Nel mio caso, perlomeno, ho semplicemente dato sfogo al mio modo di osservare le cose del mondo; tendo a vedere il bicchiere sempre mezzo pieno e, mentre il mondo si fasciava la testa, io cercavo di intravedere già la fine, tenendo conto di cosa sarebbe rimasto di valido, al netto delle complessità che il virus ha seminato. Il metodo “on the road” rimane una grande lezione del ‘900, sia per un narratore che per un giornalista , e ho scelto proprio questa modalità per immergermi fino al collo nelle problematiche della gente, nei suoi umori, nelle paure ma anche nelle attese di un lieto fine.
Mi ha colpito il capitolo “La pandemia siamo noi”, potrebbe raccontarcelo in poche battute?
La cattiva gestione della terra da parte dell’uomo produce disastri. Se scrivo “la pandemia siamo noi” è come se scrivessi “le guerre le vogliamo noi”; è sempre l’uomo a creare il caos dal quale, in una maniera o nell’altra, poi se ne esce, prima impoveriti ma poi, se non proprio arricchiti, quantomeno mutati. Nulla succede per caso, credo. La terra manda segnali all’uomo, che siano disastri ambientali o pandemie (che poi è la stessa cosa) ma noi non sembriamo accorgercene del tutto .
Alla fine di questo suo viaggio on the road in cui ha osservato, con un aplomb da cronista e l’interesse di un antropologo, luoghi e persone, dai tassisti ai conducenti dei bus, dalla gente comune a scrittori, poeti e virologi, secondo lei come ci ha cambiati la pandemia?
Forse è presto per dirlo però alcuni cambiamenti, quelli più evidenti, possiamo già notarli. Sicuramente il mondo del lavoro ha subito scossoni impensabili. Ora, ad esempio, sappiamo che è plausibile lavorare da ogni luogo e l’ufficio ha perso un po’ del suo senso sacrale. Poi, se devo pensare ad un “souvenir” che ci lascia questo passaggio del virus, beh, la mascherina. Ricordo quando vedevamo gli orientali con le mascherine e ci chiedevamo “perché” …bene, abbiamo la risposta e non escludo che le mascherine rimarranno a lungo fedeli compagne delle nostre giornate. Infine, la casa; le tante ore passate nei nostri appartamenti ci hanno fatto capire la rilevanza di avere un tetto accogliente; immagino che in futuro staremo molto più in casa che un tempo, la casa come nuovo rifugio.