Ecco a cosa serve la poesia, a dire l’essere di tutto ciò che è desiderato

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“È in te che ho sepolto l’inganno/ dei metri e dei pesi.” Non è raro che i poeti si assumano questo compito: mostrare l’inconsistenza di ciò che è misurabile, conveniente, ragionevole. Smascherare, nell’inganno consueto, la presunzione “dei metri e dei pesi”, che non hanno niente di vero da dirci e chi è mai riemerso da un’ascesi d’amore lo sa. Il pensiero dominante di Gerardo Masuccio è appunto l’amore. Gli è dedicata un’intera sezione del suo Fin qui visse un uomo (InternoPoesia 2020, pp. 112, € 12).

Lei è Laura, fantasma petrarchesco molto più visibile dei “sedicenti vivi”. Cantarla è un’urgenza: “Laura, ascolta, Milano ha i tuoi occhi,/ ha i miei occhi. Non vede che noi.” Questa fretta di filtrare il mondo attraverso l’amore può averla solo chi è andato oltre “l’inganno dei metri e dei pesi” e dei minuti. In una sovrabbondanza di tempo e spazio, immerso in una libertà che sarebbe capace di tutto, ora attende un gesto, una parola soffiata negli occhi, uno sguardo che scopre la sfumatura esatta del suo colore.

Ma è rischioso invitare lei a capire altrettanto, perché magari ancora ci crede al giudizio dei metri, dei pesi, allo scherno con cui di solito sono trattati i poeti dal mondo. Magari lei – o il mondo – ha l’occhio già premuto sul mirino e sta calcolando qual è il punto più letale cui recapitare la sua non risposta. “Il rischio che corro ad amarti/ è armarti.”

Giovanna Rosadini, nella sua introduzione, trova a Masuccio un alleato per questo gioco di fierezza disperata: Emile Cioran. “La sola cosa che possa salvare l’uomo è l’amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità questa asserzione, è perché non hanno mai amato veramente.”
Masuccio insiste: “Permettimi di oltrepassarti ancora,/ per te mi attardo a vivere, mi ostino/ a conservarmi uomo.” Laura: tra l’oltre e i metri, vita pregustata più che goduta, vissuta al contrario, solo tornando, alla sola certezza, singulariter: Laura.

Fin qui visse un uomo di Gerardo Masuccio

Ecco a cosa serve la poesia, quando nel suo gioco le va di obbedire a qualcosa. A dire l’essere di tutto ciò che è desiderato. Unica speranza calda di una Terra gettata in un universo così immenso e vuoto che basta sbandi un attimo e tutto muore. La morte, l’avversaria, la prigione, la chiave, la musa del poeta. “Questa morte che logora il petto.”

Prendere le cose sul serio, gridare che vanno prese sul serio, soprattutto se trascorse, o trascurate. Ridirle, parafrasarle, ripeterle – perché assumano il senso che il mondo nega loro. “Non attendo che un’ora trascorsa.” La poesia è un censimento di frantumi, illusioni, futuro, parenti amati, amori amati. “La polvere insegue l’assenza.”

La sezione quarta del volume si apre con un’epigrafe dal sapore tragico: “Siamo ciò/ contro cui lottiamo.” Ma nessuna ha un timbro grave come la formula “nel mondo e mai del mondo”, che Masuccio ruba a Giovanni. Chissà cos’avrà voluto chiedere all’evangelista più abbagliante. Di salvarsi? Di salvare? Di imparare a rinunciare al respiro? Di poter girare come un pazzo, almeno una volta, una, nel vorticare della vita? Nel tepore, nel soffio, nell’imminenza, nel presagio, “nel vincolo umano, nel niente”.