Viaggiamo nel Fantastico con questi “scrittori magici”

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Image by Mark Frost from Pixabay

C’era da aspettarselo: qualcuno ha lasciato di nuovo socchiuse le famigerate “porte della percezione”, e il Fantastico, dirompente, è tornato a strizzarci l’occhio da libri, serie TV e film. Ma è davvero una novità?

Lo chiediamo ad Adriano Monti-Buzzetti, giornalista RAI, scrittore, ed esperto di letteratura fantastica, una delle firme in calce al recente volume “Oltre il Reale” (GOG, 2020, 200 pg., 16 euro), raccolta di saggi dedicata ai grandi dell’Immaginario.

Gianfranco de Turris parla del Fantastico come “la prosecuzione della realtà con altri mezzi”. Sta qui il senso del titolo?

Sì, la frase rende bene lo spirito di questo lavoro. Come cerco di spiegare nel mio contributo, si tratta di un genere erede morale dell’aedo e dello sciamano, un tipo d’indagine oltremondana che passa per gli antichi culti misterici e il neoplatonismo fino all’esoterismo ottocentesco. È un tentativo di “proseguire” la realtà in scenari evocati da quelli che Jacques Bergier chiamava “scrittori magici”, oltre la narrazione dell’universo basata sul materialismo. Non è un caso che i prodromi del romanzo fantastico vedano la luce in pieno trionfo dell’Illuminismo. Oggi la Fisica sembra dare ragione a sognatori come Lovecraft: il “reale” è più vasto e sorprendente dell’idea che ce ne siamo fatti. 

 L'intervista a Adriano Monti Buzzetti

Il Fantasy non è più tabù, ma le accuse di fuga dal mondo restano dietro l’angolo.

Che la fantasia abbia una marcia in più lo diceva Einstein, mica Tolkien. Da parte sua il Professore di Oxford, nel suo celebre On Fairy-Stories ribadiva che “la connessione tra bambini e fiabe non è che un accidente”. Quanto alle accuse, temo che non ce ne libereremo tanto presto. Eppure, com’è noto, Tolkien definiva la fantasia un atto di sub-creazione: quasi un residuo della facoltà demiurgica di Dio, che rende l’uomo scultore di universi. Una prospettiva che ci riporta a tempi in cui l’indagine sul cosmo non aveva steccati. Il fantasy è una lingua ancestrale, che aggira le convenzioni per toccare le corde dell’inconscio. 

In Italia divampa la nuova Guerra dell’Anello, con revisioni e ritiri del capolavoro tolkieniano. Solo una bega provinciale?

La vecchia traduzione, con i suoi arcaismi approvati dallo stesso Tolkien, è radicata nella memoria di generazioni di lettori; forse sarebbe stato meglio limarne le sbavature anziché ripartire da zero. In ogni caso credo che la querelle risenta del clima di contrapposizione che ha sempre caratterizzato l’orizzonte italiano, cosa che per fortuna non nuoce al credito internazionale dei nostri studiosi. Prova ne sia l’interesse attorno un’iniziativa che mi vede direttamente coinvolto: la mostra The Tree of Tales, la più grande mai realizzata in Italia, che verrà inaugurata al prossimo Meeting di Rimini. Organizzata dall’ateneo scozzese di St. Andrews, vedrà esposti rari cimeli del Professore, con in cornice una conferenza di grandi esperti internazionali. Un tentativo autorevole di guardare oltre le diatribe locali.  

Nella raccolta figurano nomi come Smith e Meyrink, ma in libreria troviamo spesso volumi usa e getta. Dobbiamo rassegnarci a rimuginare i classici?

Non credo. La qualità un po’ ondivaga si ritrova anche in altri filoni, e ogni tanto si sente ancora puzza di capolavoro. Vale nel giallo, che ha canoni ben più stereotipati del fantasy o del weird, e dove pure autori come Vargas e De Giovanni sono riusciti a dire qualcosa di nuovo. E vale nel Fantastico: penso a Mièville o al lovecraftiano W.H. Pugmire. Anche gli italiani hanno molto da dire, con il “fantasy mediterraneo”: la ricchezza della nostra storia ci rende in grado di proporre una via italiana all’altezza del mondo anglosassone. Una sfida tutta da scrivere. 

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