Silvia Siravo: “Mi piacerebbe un teatro coraggiosamente povero”

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«Dubbiosa, riflessiva, non amo sentirmi manipolata dal prossimo. Amo giocare e questo mestiere lo adoro pure nel senso del divertimento e del piacere che si prova nel farlo. Vengo da una famiglia di attori, ho capito la mia strada nel tempo e in questo momento credo di accettarla e godermela in pieno». È così che si definisce l’attrice Silvia Siravo, prendendosi il suo tempo davanti a un caffè proprio perché vuole pesare le parole, non per nascondersi o filtrarle, anzi proprio perché ne dà valore. E poi aggiunge «certo, di mio, sono una persona socievole, mi piace stare con gli altri e non perdere mai il senso della leggerezza» ed effettivamente abbiamo potuto toccare con mano quanto avesse voglia di dialogare di sé e di Arte a 360°.

L’abbiamo incontrata mentre era in scena al Carcano di Milano con La cena delle belve, di Vahè Katcha, (versione italiana di Vincenzo Cerami), regia associata di Julien Sibre e Virginia Acqua.

La vicenda presenta la storia di sette amici che, nell’Italia del 1943 durante l’occupazione tedesca, si ritrovano per festeggiare il compleanno di un’amica (Marianella Bargilli), ma quella stessa sera vengono uccisi due ufficiali tedeschi ai piedi della loro palazzina e per rappresaglia la Gestapo decide di prendere due ostaggi per ogni appartamento. Il comandante tedesco dell’operazione (Ralph Palka) riconosce nel proprietario dell’appartamento (Ruben Rigillo) dove si trovano i sette amici, il libraio dal quale spesso compra delle opere e per mantenere un singolare rapporto di cortesia avverte che passerà a prendere gli ostaggi al momento del dessert, dando loro la possibilità di scegliere chi sacrificare.

Silvia, quest’opera mette in scena una vicenda molto forte, quali sono i punti di contatto con oggi?

È una situazione paradigmatica perché riguarda la condizione in cui si trova questo gruppo di persone, sotto pressione perché deve salvarsi la pelle e questo purtroppo potrebbe verificarsi in qualsiasi momento. È un gioco sadico e malato che fa un uomo verso altri uomini e purtroppo la deformazione mentale esiste sempre perciò gli spettatori restano molto colpiti alla sola ipotesi che possa accadere l’indomani a loro. In questa gabbia-salotto in cui si scervellano per trovare una soluzione, emerge la vera e bieca natura dell’uomo, con tutti i suoi limiti, le bassezze, forse con qualche piccolo atto eroico. Ognuno di loro è costretto a mettersi a nudo di fronte a quella circostanza, confrontandosi con se stesso e con gli altri.

Lo spettatore empatizza fino a chiedersi: cosa farei se mi ci trovassi? Tu quale risposta ti sei data?

Immaginarlo solamente è molto difficile rispetto al ritrovarsi davvero. Utopicamente auspicherei almeno di non buttare in pasto gli altri al posto mio; poi sono onesta, ritengo che in una situazione così estrema tutto possa diventare imprevedibile.

Gli uomini arrivano a pensare di sacrificare le donne…

Ogni sera è terribile quella scena, tanto più da donna. Quando ipotizzano di mandare in pasto al generale la nostra femminilità fa un certo effetto perché lo fanno con una tale leggerezza che diventa agghiacciante. Penso che questo atteggiamento sia molto presente anche nella nostra attualità – magari in modo velato e latente e non portato al paradosso come capita in questo spettacolo. Un esempio nel quotidiano, in un rapporto uomo-donna, è anche il solo dire (dandolo come assodato): «le donne rompono le scatole». Voglio rivendicare questa libertà perché forse chi afferma che rompiamo le scatole è solo infastidito dal fatto che diciamo la nostra. Bisogna essere assertivi per riuscire a scardinare certe idee.

Al tuo personaggio, Francesca, sono affidate parole forti, che riportano il gruppo alla realtà della guerra. Lavorare su di lei cosa ti ha permesso di scoprire?

Un’istintualità, un’ironia e un cinismo che possono anche appartenermi. Pur essendo una persona molto diplomatica nella vita, proprio perché tengo molto dentro, poi tendo a esplodere e Francesca, in questa pièce, non si preoccupa di esplodere con veemenza. Apprezzo molto che sia una donna coraggiosa ed è ciò a cui bisogna auspicare nella vita, compreso il coraggio nel dire.

 L'intervista OFF a Silvia Siravo
Silvia Siravo ne La cena delle belve

A proposito di questo: quali sono i paletti che ti portano ad auto-censurarti?

A volte è difficile relazionarsi con l’altro, penso sempre che si possa trovare una soluzione più morbida, che preveda dei compromessi e, invece, col tempo scopri che il conflitto è necessario, ovviamente quando sussiste una ragione e non in modo gratuito, ma in un’ottica costruttiva.

Tra gli altri tuoi talenti c’è il disegno (dall’11 gennaio al 2 febbraio 2020 presso lo spazio espositivo del Passante Ferroviario di Porta Vittoria a Milano è stata allestita la mostra collettiva ideata da Angela Maria Iuliano)…

Per divertimento, ogni tanto, realizzo dei piccoli disegnini (o a mano o con cellulare o iPad) che chiamo “i miei mostri”, unendoli spesso a delle citazioni. C’è quasi sempre uno scontro-incontro tra due, la bocca spalancata è quasi sempre un elemento presente. Risvegliano un po’ la mia anima da bambina perché è qualcosa che sorge istintivamente, il tutto senza alcuna velleità artistica. Anche papà disegna e ci teneva che esponessi una sua opera intitolata “Godot non è arrivato”.

Anche nel mio lavoro di interprete il disegno mi aiuta a concentrarmi, ad andare al cuore di ciò che sto facendo, come se fosse una battuta ironica.

 L'intervista OFF a Silvia Siravo
la miglior difesa è il distacco

Condividi con noi un episodio OFF?

Ho frequentato molto i teatri off. Ho lavorato con quattro donne dando vita a spettacoli auto-prodotti, il primo è stato Tacchi misti. Secondo me, in questo momento dove nelle strutture consolidate sta andando un po’ a rotoli, bisogna ripartire da idee che ci corrispondono e provare a rappresentarle. A volte paga di più rispetto ad altre situazioni. Ho lavorato anche all’Argot con Gili e Frangipane in Prima di andare via e ultimamente al Teatro Le Sedie diretto da Andrea Pergolari, il quale tenacemente continua a far vivere una realtà così nella periferia romana. Lì abbiamo messo in scena con Emanuele Salce Signora Ava di Francesco Jovine.

Innegabilmente non sono tempi facili. Mi piacerebbe che si desse vita a un teatro coraggiosamente povero, forse si può iniziare a liberarsi di sovrastrutture e riuscire a raccontare comunque in maniera efficace, tanto più se si riesce a fare gruppo e a confrontarsi.

Cosa ti ha lasciato l’incontro con un maestro come Luca De Filippo (ha condiviso con lui il palcoscenico ne La dodicesima notte)?

Aveva un rigore, una discrezione e un rispetto di questa professione davvero rari. Quando mi vedeva in ansia, mi diceva: «devi fare quello che c’è e il pubblico apprezzerà il coraggio di mostrarti con quello che c’è in quell’hic et nunc». Questa è stata una grande lezione per chi deve entrare in scena.

Dove ti vedremo prossimamente?

Dopo la tournée de La cena delle belve, sono contenta perché contino a essere impegnata sul palcoscenico:  al Ciak di Roma ne La scala a chiocciola e, sempre nella capitale ma al Teatro Palladium, interpreterò Elena ne Le Troiane di Seneca, per la regia di Alessandro Machìa, con Paolo Bonacelli, Edoardo Siravo, Alessandra Fallucchi, Cecilia Zingaro, Marcella Favilla, Gabriella Casali. Poi sono molto contenta di riprendere Erano tutti miei figli, con la regia di Giuseppe Dipasquale, con Mariano Rigillo, Cicci Rossini, Filippo Brazzaventre, Ruben Rigillo, Barbara Gallo (in cartellone dal 27 marzo al 5 aprile al Teatro Biondo di Palermo e dal 16 aprile al 3 maggio al Teatro Brancati di Catania). Infine, per tutta la stagione 2019/2020, sono ospite fissa nella trasmissione di Gigi Marzullo, Milleeunlibro, nella quale leggo brani tratti dalle opere presentate in puntata.