Quelle “angosciose soavità” del nuovo romanzo di Gilberto Severini

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Con quanta grazia grida il vuoto di senso delle cose il nostro Qoelet marchigiano, Gilberto Severini. Come se raccontasse gli svolazzi di un bicchierino di sherry, il fruscio di una gonna di seta. Piene di angosciosa soavità e di esasperante compostezza sono le pagine di Consumazioni al tavolo – Sentiamoci qualche volta (Fandango Playground, 2019, pp. 168, € 15).

Vuota di senso l’amicizia. Bella parola, impossibile da ritenere ancora valida oltrepassato il confine della maturità: non esattamente i diciotto anni. Gianni. Paolo. Paola. Alberto. Sono quattro amici quarantenni e non sanno uscire da se stessi neanche per un istante. Gianni: per tutta la vita alla ricerca di una libertà sessuale di cui non riesce a non vergognarsi al solo pensiero. Lei, Paola, un’arpia egocentrica, brava giusto a farsi uscire dalla bocca i paroloni da aspirante intellettuale impegnata. Paolo, poverino, rassegnato a una subalternità di coppia per cui Paola fa di lui quel che vuole. Alberto, la persona che li ospita per qualche giorno, l’io narrante, che si rende conto della meschina assurdità di tutto, ma è come paralizzato. Anche se odia Paola, anche se disprezza Gianni. Anche se gli fa schifo come Paolo incassa gli sgarbi senza ribellarsi. E poi il diciottenne Roberto. Tutti si esaltano quando arriva. È la giovinezza, l’avventura, la libertà. No: è solo uno che vomita sulle piastrelle di Alberto e si è mischiato in una storiella di poca tragedia per cui piange come un vitello. Patetico. Scemo e patetico.

Vuoti di senso i cineforum, i paroloni “che servono per far credere di pensare”. Insulso quell’andare irrequieto, che fa molto Kerouac e molto ridere.

Moribondo il sogno dell’amore, tenuto in vita da un singulto di viltà, perché senza sarebbe troppo infame arrabattarsi a campare. Così in Sentiamoci qualche volta, il monologo del protagonista, dispacci dal fronte di un’esistenza amarognola, dove la rassegnazione non è che una presa di coscienza, un moto di realismo.

Spiazzante la penna di Severini. La pazienza che ha nel raccontare un mondo senza passione e senza eroi e senza speranze e senza ali. Un asceta del garbo. Così misurato e gentile e onesto che per decenni si è cercato di fargli la pelle. Relegandolo tra gli autori di cui conveniva non parlare troppo.