Insegniamo a scuola ottimismo e creatività

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Il patrimonio della cultura e dei beni culturali in Italia è un fattore identitario, un generatore di ottimismo, una leva economica. Se la politica se ne frega, bisogna ricominciare dalla scuola.

Secondo tutti i sondaggi di questi ultimi anni, la cultura e i beni culturali sono percepiti dagli italiani come un settore positivo; su di essi, sulla loro funzione educativa, identitaria, ed economica c’è un consenso diffuso e generalizzato. Solo la politica, sia di destra che di sinistra, non ha mai davvero creduto che lo sviluppo del paese potesse venire da un comparto che, pur mancando di vere politiche pubbliche, nella sua filiera stretta (dai musei alle industrie creative, escludendo il turismo) genera comunque 90 miliardi di euro di pil all’anno. La questione è paradossale: ancora in questi giorni secondo il recente “2019 Best Countries rankings”, formulato da alcune società specializzate americane in collaborazione con l’università della Pennsylvania, l’Italia risulta per influenza culturale la prima nazione al mondo, grazie all’arte, al design, alla moda, alla cucina; eppure qui da noi non esistono visioni strategiche a riguardo né la consapevolezza che all’estero siamo percepiti come leader. Anzi, tendenzialmente, diminuiscono gli investimenti pubblici, non diminuiscono gli impedimenti burocratici, e anche le poche liberalizzazioni o defiscalizzazioni risultano timidi tentativi non in grado di produrre un vero cambiamento.

A fronte dell’insipienza e dell’ignavia della politica, dobbiamo aggiungere la difficoltà delle centrali educative, soprattutto la scuola (in ogni ordine e grado), nel tramandare il valore del nostro patrimonio alle giovani leve, ed è un problema perché solo la conoscenza genera amore e l’amore a sua volta genera cura. E noi abbiamo bisogno di curare questo patrimonio, amandolo e conoscendolo, così da poterlo lasciare in eredità, un patrimonio diffuso, senza soluzione di continuità da 3 mila anni, che va conservato e valorizzato, puntando sull’innovazione che non è solo innovazione di strumenti, ma soprattutto innovazione nel mondo di pensare e gestire i processi di valore.

Innanzitutto, credendo che la Bellezza sia eminentemente un valore politico (non solo estetico) e debba imperniare l’azione politica, perché essa dà senso alla vita. La bellezza è una forma simbolica che invece di procedere verso l’insignificanza e l’annullamento, produce continuità nel sistema, mutamenti di forma, nuovi significati. In un tempo di vari nichilismi, bisogna dunque esaltarne l’ideale regolativo, la capacità di trasformazione nella persistenza, la sua funzione sociale, il carattere educativo. La Bellezza così pensata è preminentemente un valore politico, perché individua modi di progettare e di intervenire sulla realtà circostante, trasmette valori, induce all’imitazione positiva, offre soluzioni efficaci alla società.

Poi, pensando che il nostro patrimonio culturale è un fattore identitario, un giacimento di senso, contenendo esso la nostra identità anche nei confronti degli stranieri. L’Italia come sentimento e territorio, come nazione, esiste prima della formazione dello Stato in virtù dell’appartenenza a una cultura e a una lingua specifica.

Ma il patrimonio culturale è anche un generatore di ottimismo; c’è una sorta di ottimismo, grazie al quale l’Italia trova soluzioni brillanti specie nei momenti di crisi; questo ottimismo ha radici nella cultura e nei beni culturali che sono rappresentazioni plastiche di inventiva e creatività. La bellezza che promana dal nostro patrimonio e che ci circonda, una bellezza stratificata per millenni, induce creatività in tutti noi. Il made in Italy è il prodotto di questa creatività diffusa, frutto appunto di una bellezza stratificata. Il patrimonio è infine un potente moltiplicatore economico: per ogni euro investito in cultura se ne generano circa 2 sul resto dell’economia.

L’Italia inoltre è il più grande contenitore di paesaggi del mondo, il suo è un vero record. Ma il paesaggio è frutto della continua interazione fra uomini e natura. Quando si guarda un paesaggio e se ne gode, si contempla il lavoro millenario di generazioni profuso per rendere ospitale, cioè abitabile, la natura selvaggia. È lo spettacolo della civiltà, della civitas: una città allargata e abitata. Ed è per questo motivo che il paesaggio va difeso con forza e con intelligenza. In esso alberga lo spirito stesso della civiltà che viviamo e che da sempre abbiamo esportato. Il paesaggio è dunque la perfetta compenetrazione tra natura e arte. In questo senso, l’Italia è anche il più grande museo a cielo aperto del mondo e come tale va trattato. Scontato adoperarsi perché esso sia visitabile e fruibile nel migliore dei modi e da più gente possibile. Il turismo deve essere agito come un comparto strategico della nostra economia, ma questo non basta per le ragioni sopra indicate, poiché il patrimonio è qualcosa di più di un semplice luogo da consumare. Al patrimonio si affianca una secolare tradizione del bien vivre, espressa con la gastronomia, la cultura, la capacità di generare emozioni, la cultura dell’accoglienza.

È opinione diffusa, dicevamo all’inizio, che i beni culturali siano il nostro petrolio che basterebbe estrarre per diventare ricchi, in realtà il loro sfruttamento simbolico ed economico (diretto ed indiretto) è molto complicato e prevede non solo l’impegno di risorse economiche, ma anche un grande lavoro di creatività e innovazione capace a sua volta di produrre, in un circolo virtuoso, creatività e innovazione. E’ necessario liberare energie creative e coinvolgere da un lato le aziende private, dall’altro tutte le comunità di interessi, nonché i semplici cittadini. Ma per far questo, lo ripetiamo, bisogna iniziare ad educare, ad educarci.

Articolo pubblicato sul numero 2 di CulturaIdentità