Vincenzo Bocciarelli, mantovano di nascita e senese di crescita, è noto al grande pubblico principalmente per le numerose fiction televisive di cui è stato interprete. Tuttavia è il palcoscenico il luogo in cui ha mosso i primi passi della sua carriera. Una tradizione un tempo imprescindibile per la formazione degli attori “veri” , categoria purtroppo in via di estinzione in questo universo di improvvisatori e improvvisati, magari beneficiati da qualche orrendo reality. La sua “prima volta” – artisticamente parlando – si è consumata in un piccolo teatro di Siena, a quindici anni, nel ruolo di Fulgenzio negli Innamorati di Goldoni. Ma è stato su quelle di un altro “Piccolo”, ma ben più prestigioso teatro, quello di Milano, diretto da Giorgio Strehler, che la sua carriera ha spiccato definitivamente il volo portandolo fino a Hollywood.
Hai debuttato con il grande Glauco Mauri nei Quaderni di conversazione di Ludwig Van Beethoven…
Sì, l’incontro con il Maestro Mauri ha rappresentato un momento focale e fondamentale della mia carriera. Avevo ventun’anni e tutte le sere il sipario si apriva nei più importanti teatri italiani di fronte ad un giovane attore impaurito ma al tempo stesso carico e appassionato, consapevole di aver avuto una grande opportunità. Eravamo solo quattro in scena ed io interpretavo il nipote Karl, avevo tutte le scene con Glauco Mauri, mio zio Ludwig. Era uno spettacolo molto impegnativo, dai tratti cinematografici, verista insomma. Una grande palestra per me. Dopodiché, c’è stato ancora moltissimo teatro, con grandi registi come Kristoff Zanussi, Giorgio Albertazzi, Lorenzo Salveti, solo per citarne due o tre a caso.
Il mio primo protagonista assoluto arrivò nel 1996 con La leggenda del Re Pescatore, per la regia di Kristoff Zanussi, con il quale debuttammo al festival di San Miniato e andò anche in onda su Rai Due in versione televisiva. Ho un bellissimo ricordo di quello spettacolo, soprattutto per la gioia di entrare in scena a cavallo in mezzo al pubblico, fantastico. Come arricchente fu l’incontro con due attori indimenticabili: Riccardo Garrone e Giulio Brogi. Con il Maestro Albertazzi ho bellissimi ricordi, oltre che Il Mercante di Venezia e L’Angelo Azzurro, uno spettacolare Edipo Re a Taormina con Irene Papas. Interpretavo il messo e avevo l’onere di chiudere lo spettacolo con un lungo monologo. Grazie ai consigli di Albertazzi e della generosa Irene Papas riuscii ad ottenere ben tre applausi in tre momenti diversi dello stesso monologo. Ci sono ricordi, stupor interiori e gioie che mi hanno riempito il cuore e che resteranno per sempre tatuati dentro di me.
Quanto ha contato, nella tua formazione come attore, l’aver cominciato con il teatro?
La formazione teatrale è stata fondamentale per me. E’ un percorso che non finisce mai e necessita di un continuo e costante allenamento. Imparo molto anche insegnando. Avviene uno scambio biunivoco tra maestro e allievo. Il linguaggio teatrale è in continua metamorfosi. A questo proposito, presto mi confronterò con la commedia e la comicità. Ho una gran voglia di far divertire il pubblico.
Secondo te si può definire veramente “attore” chi non ha mai calcato le tavole o respirato la polvere di un palcoscenico?
Posso soltanto dirti che i cavalli di razza si vedono al traguardo.
Ad un certo punto della tua vita, però, incontri quella che Marshall McLuhan chiamava “la cattiva maestra”: la televisione. Nel tuo caso possiamo dire che, invece, è stata una cara amica e una buona compagna di viaggio?
Negli anni Novanta ero soprattutto conosciuto come attore di teatro, avendo già ricoperto molti ruoli difficili nonostante la giovane età. I Maestri di Teatro mi sconsigliavano di lasciarmi sedurre dal potere ammaliante della televisione, dalla popolarità e dal successo. Poi ho capito il perché. Mi affascinava tuttavia moltissimo l’idea di “abbracciare” con la mia arte milioni di persone, penetrando addirittura nelle loro case. Grazie all’incontro con un grande manager, Giuseppe Perrone, che mi scoprì al Teatro Eliseo mentre recitavo Re Lear nei panni del buon Edgar. Gli aveva già parlato di me Giorgio Albertazzi, che mi aveva visto recitare in Ecuba a Siracusa nel 1998 come Polidoro figlio di un’Ecuba straordinaria: Valeria Moriconi.
Sei stato nel cast – se non vado errato – di ben tredici tra le fiction di maggior successo degli ultimi vent’anni. A quale personaggio, tra i molti che hai interpretato, ti senti più legato?
Mi verrebbe naturale ricordare il Marchese Andrea Obrofari di Orgoglio, visto il grande successo e le ben trentasei puntate realizzate dalla Titanus per il prime time di RaiUno ma, pensandoci bene, c’è un ruolo che raramente cito e a cui sono molto legato: Fabio Rubini della fiction Cinecittà. Bellissima e con un cast stellare: Barbara de Rossi, Philip Leroy, Carlo Croccolo, Alvaro Vitali, Giuliana Lojodice e tanti altri… Una storia che si svolgeva dentro Cinecittà, rievocando gli antichi fasti e le atmosfere intramontabili della settima arte. Fabio era un ragazzo rupofobico (fobia ossessiva per lo sporco, n.d.r.) che grazie alla sua passione per la recitazione e l’amore della sua insegnate, interpretata da Antonella Attili, riesce a guarire ed aprirsi alle meraviglie del mondo. Ho perso cinque chili per assorbire meglio l’identità di Fabio.
E quale, secondo te, ti assomiglia di più?
Un po’ tutti e un po’ nessuno. Dopo tanti anni di questo lavoro e dopo essere cresciuto a pane e parole – parole di Sofocle, piuttosto che Shakespeare, Artoud, Gothe, Pirandello e tanti altri – mi sento come un fiore dai mille petali e il difficile talvolta è proprio riuscire a ritrovare la mia vera identità. Per questo il percorso analitico è molto importante. Non scodarsi mai chi si è veramente.
Ma in televisione non hai solo fatto l’attore.
Da qualche anno ho scoperto il piacere della conduzione. Ormai appuntamento fisso alla Festa del Cinema di Roma dove conduco, per Canale 21, Live in Rome con quindici giorni di dirette quotidiane “live” dal Red Carpet capitolino con grandi ospiti e sevizi esclusivi. È un ingranaggio che mi galvanizza tantissimo e sono grato al direttore Stefano Arquilla e all’editore Paolo Torino che hanno creduto in me. Ogni anno gli ascolti sono sempre più in crescita!
Parliamo del tuo incontro con la settima arte: il cinema. Sei appena rientrato da Cannes dove sono stati presentati ben due film che ti vedono nel cast: Mission Possible e The dog of Christmas, entrambi produzioni americane dirette da Bret Roberts
Qualche giorno fa è stato presentato Mission Possible durante il Festival di Cannes e ho avuto modo di condividere il successo della premiere con attori non solo belli e bravi, ma soprattutto belli dentro: John Savage e Blanca Blanco, Letizia e Rebecca Pinocci, Tatiana Romanova. Lavorare con colleghi dalla grande umanità e generosità è davvero una fortuna. Un team prezioso costituito da Enrico Pinocci della MovieOn, prestigiosa casa di distribuzione e produzione a livello internazionale, vincitrice del TMT Entertaiment Award come “miglior società di produzione e distribuzione cinematografica per 2017 nel Regno Unito”.
Prossimamente termineremo anche le riprese di The dog of Christmas, esilarante commedia dai toni colorati, dove interpreto Hector, un dandy sempre impeccabile ed elegante, proprietario di un pet shop. Entrambi i film verranno distribuiti in oltre quaranta Paesi.
Il tuo passaggio dal piccolo al grande schermo avviene però nel 2004 con Le grandi dame della casa d’Este. Qualcosa che, essendo tu mantovano, ti riguardava abbastanza da vicino.
Il passaggio dalla televisione al Cinema è stato lento e non molto facile, ed è avvenuto per lo più attraverso racconti epici e storici. Forse dato il mio aspetto un po’ di altri tempi, i registi anni fa mi collocavano più facilmente in film in costume. Il che, devo dire, mi piaceva e mi piace tantissimo… Amo le favole, amo volare attraverso le ali del tempo. Il cinema rappresenta per me il vero sogno di evasione totale dalla crudezza della quotidianità. A Ferrara ero Francesco Gonzaga con Mariano Rigillo con il quale mi sono ritrovato anche sul set di Florestano Vancini e successivamente in teatro. Curioso certo l’incontro con i Gonzaga, essendo io nato a Bozzolo, granducato di Vincenzo Gonzaga. Storica famiglia amante dell’arte.
Tra i film che hai girato ci sono E ridendo l’uccise, ultima opera dell’appena citato Florestano Vancini; L’Inchiesta accanto a Max Von Sidow e l’esilarante La scuola più bella del mondo di Luca Miniero.
Tutte pellicole e personaggi completamenti diversi tra loro e tutte esperienze dalle quali ho tratto insegnamenti significativi. In primis l’abbandono completo nelle mani del regista cercando di rispettare il più possibile l’idea e il racconto pensato da lui. Sul set mi sento una marionetta nelle mani del regista, ma una marionetta con l’anima, intendiamoci. Ho lavorato spesso con Giulio Base che stimo molto e al quale sono grato per avermi affidato il difficile ruolo di Caligola. Ricordo con grande affetto il maestro Florestano Vancini il quale mi disse che era intrigato dal fatto di farmi interpretare un cattivo dal viso d’angelo: il cardinale Ippolito d’Este. Più recentemente ho apprezzato la capacità di Luca Miniero di trasformare lo script, le scene scritte, come se prendessero vita per la prima volta in quell’istante.
Sappiamo che non hai fatto in tempo a scendere dalla scaletta dell’aereo che sei stato immediatamente catapultato su un altro set: l’ennesima produzione americana alle porte di Roma. Di cosa si tratta e, secondo te, Hollywood sta tornando sul Tevere?
Hollywood non ha mai abbandonato il Tevere e mai l’abbandonerà. L’America ha troppo bisogno del nostro pathos e della profondità che storia e arte riescono a restituire nella Città Eterna. Non posso dire troppo della nuova avventura che mi vede coinvolto nei panni di Tito Livio e…. Stop. È un “Mistero Gabino” di più non posso dire. So solo che Roma ha ancora tanto da raccontare. Soprattutto ciò che cela sotto di lei. Mi auguro che questa meravigliosa città che mi fece battere il cuore a tredici anni possa essere sempre amata, protetta e tutelata per regalare ai posteri la sua infinita maternità.
Parliamo del Vincenzo Bocciarelli privato: siamo curiosi di approfondire la tua passione per la pittura. La ami solo come fruitore o dipingere è un’ennesima sfaccettatura del tuo essere un artista?
Nasco come pittore allievo nella scuola d’arte a Siena e la pittura ha rappresentato il primo viatico di contatto ed esperienza visiva verso l’arte in movimento. Quando dipingo entro in un altra dimensione, come quando recito del resto. Avviene un transfert. Ho un profondo e necessario bisogno di questo transfert. Quando creo un personaggio, spesso lo immagino disegnato, dipinto. Sui miei copioni è possibile trovare schizzi e bozzetti con immagini e suggestioni che provo in fase di studio. Sono molto affascinato dagli occhi, dallo sguardo in pittura come nel cinema. Ripenso ai volti di Giotto e Boninsegna piuttosto che ai corpi trasfigurati di Munch. Gli occhi bucano anzi dovrebbero bucare sempre la cosiddetta quarta parete.