Gaia Messerklinger: “Non sognavo di fare l’attrice finché un giorno….”

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Gaia Messerklinger - Ph. Marco Rossi
Gaia Messerklinger - Ph. Marco Rossi
Gaia Messerklinger – Ph. Marco Rossi

Già dalla voce si può cogliere quanto una persona è accogliente e questa è la percezione che si ha di Gaia Messerklinger a primo impatto. La giovane e dolce attrice è un volto molto noto del piccolo schermo, in Fuoriclasse (Rai), Centovetrine e Le tre rose di Eva (ambedue targate Mediaset) – per citar alcuni esempi – è stata coprotagonista, ma nel suo bagaglio annovera esperienze molto variegate. Classe 1989, dalle risposte emergono profondità nell’analisi del suo tempo e propositività verso il futuro. Attualmente è in tv con Sacrificio d’amore (in onda su Canale 5 mercoledì in prima serata) e in scena (fino al 7 gennaio) al Teatro Roma della capitale con un cult, Boeing Boeing di Marc Camoletti (versione italiana di Luca Barcellona e Francis Evans. Regia di Mark Schneider sulla regia originale di Matthew Warchus).

Gaia, qual è il tuo ruolo e che tipo di esperienza è stata la preparazione?

Interpreto Gloria Hawkins, una delle tre hostess che vediamo nel corso della storia. Protagonista è un giovane architetto parigino, Bernardo, il quale ha creato un meccanismo perfetto con le fidanzate e proprio per la struttura da commedia, a un tratto, le donne si ritrovano nello stesso momento in casa. A supporto dell’uomo arriva un suo amico, un tipo molto particolare.

Il mio personaggio è di nazionalità americana, una donna molto divertente, che ha ben chiaro quello che vuole dalla vita e qual è il suo ruolo. Siamo negli anni Sessanta, in un’America in cui la donna cominciava ad emanciparsi; lei infatti lavora e, a quel tempo, la maggior parte era votata al matrimonio e alla vita famigliare. Gloria dice chiaramente: «la donna è più forte, comanda l’uomo, con quest’ultimo che deve provvedere al mantenimento»; è una persona con idee e principi che persegue con grande libertà e il sorriso sulle labbra.

Proprio per gli aspetti da te sottolineati, quanto sposi questa concezione della vita e della figura femminile?

Non è la mia visione, però quando interpreto un personaggio naturalmente devo mettermi dal suo punto di vista, capirlo e credere nel suo mondo. Va detto che ci troviamo di fronte a uomini e donne all’interno di una commedia, per cui, proprio per la tipologia di linguaggio, si tende ad accentuare determinati aspetti. E poi era un’altra epoca. Senz’altro apprezzo molto la libertà e il carattere di Gloria, il suo saper far ubbidire l’uomo, io sono un po’ più democratica.

Avevi visto anche il celebre film del ’65 con Tony Curtis, Jerry Lewis e Thelma Ritter?

Quando mi è stato proposto questo testo non lo conoscevo, ma sono andata subito a documentarmi, vedendo tante versioni differenti dato che è la commedia più rappresentata al mondo. Abbiamo adottato lo stesso allestimento di Broadway. Nella nostra versione ciascuna delle hostess apporta il proprio stile di vita, le passioni e il modo di intendere il rapporto. Il film non l’ho voluto vedere per non fossilizzarmi eccessivamente così da sentirmi più libera di dar una personale interpretazione.

Cosa pensi di questo revival anni ’50 e ’60, se guardiamo anche alle fiction in costume?

Credo sia fondamentale la magia che suscitano quelle atmosfere, affascina il vedere rappresentato un mondo molto diverso e per alcune generazioni che han vissuto quegli anni scatta anche il ricordo. Personalmente amo molto vedere storie ambientate nel passato, dal punto di vista recitativo è stimolante indagare come queste vivessero e come siano cambiate anche le relazioni tra le persone. Stiamo in tempi in cui tutto si evolve molto velocemente e andare leggermente indietro, osservando un mondo un po’ cristallizzato, diventa d’impatto per il contrasto coi tempi di oggi così sfuggenti.

Apprezzi i testi contemporanei o avverti una carenza in tal senso?

Non ho alcun tipo di preclusione né sono una nostalgica che dice “prima era meglio” e anche il racconto della contemporaneità può offrire tantissimi spunti di riflessione. È giusto guardare al passato, conoscere il cinema che ci ha preceduti per aver ben chiare le proprie radici, però pure oggi c’è materiale da tematizzare. Il punto sta nel bisogno che si ha di raccontare qualcosa.

Gaia Messerklinger - Ph. Marco Rossi
Gaia Messerklinger – Ph. Marco Rossi

Gaia, hai cominciato con un teatro particolare, hai voglia di parlarcene?

È accaduto quasi per caso: mia mamma è un’attrice e regista teatrale che lavora coi bambini e, sin da quando eravamo piccole, con mia sorella [anche lei attrice, n.d.r.] ci ha coinvolte nei suoi spettacoli. Giravamo scuole e biblioteche e abbiamo fatto anche teatro di strada. Ero giovanissima, quasi coetanea del pubblico. Per me è stata una palestra fondamentale; mia madre era una che giustamente pretendeva tanto, per cui ci ha insegnato la disciplina, facendoci partecipare anche a montaggio e smontaggio della scena. Sono momenti che ricordo con tanto affetto perché sono legati a una condivisione famigliare molto particolare.

Visto il tipo di teatro che facevate, hai avuto modo di provare subito l’impatto col pubblico…

Assolutamente, i bambini non la mandano a dire, sono degli spettatori molto severi e, al contempo, danno in maniera generosamente, però tu in primis devi farlo. Nei nostri spettacoli ballavamo e cantavamo ed è un tipo di linguaggio che i più piccoli apprezzano. Capita anche che, quando i bambini si divertono per ciò che sta accadendo, vogliono partecipare e questo mi ha temprata, educandomi a essere super-recettiva.

Gaia, sei attualmente in onda in Sacrificio d’amore nei panni di Guendalina Volpi Corradi: come la descriveresti?

È una donna rigida, austera e infelice perché non si sente amata e questa grossa insoddisfazione la trasmette. Le manca l’amore vero, il rapporto col marito è un matrimonio di convenienza e non ha figli. Io me la immagino come la lava del vulcano che bolle, bolle e prima o poi esplode – ed è ciò che le accade, avendo tutta una serie di nodi che deve sciogliere.

Trasmettendo tu solarità, non deve esser stato semplice incarnare queste sfumature…

Effettivamente no, il bello di questa professione è proprio la trasformazione. Ricordo come la costumista, alla prima prova, fosse stupita che fossi io Guendalina: «con quel viso dolce», mi disse. Non appena ho indossato l’abito, è come se fossi entrata in un’altra dimensione e lì, anche lei, ha visto in me Guendalina.

Spesso nelle fiction viene rappresentata una società aristocratica…

Credo che anche questo faccia parte del fascino suscitato dal narrare qualcosa di lontano da noi, fantasticando sull’esistenza di queste persone e conducendo così in una dimensione sognante.

Secondo te vedere un lusso, magari irraggiungibile per i più, non allontana?

Dipende tanto da com’è delineato il personaggio, l’empatia può nascere a prescindere dal contesto in cui è calato. Contano molto le caratteristiche degli uomini e delle donne a cui si dà voce; certo magari Guendalina non è quel tipo di ruolo che fa scattare un’immediata empatia col pubblico. In generale quando emergono le relazioni fra i vari personaggi, i punti di contatto si trovano dato che si sceglie di trattare sentimenti eterni e universali.

Ripercorrendo il tuo percorso fino ad ora, ci sono due titoli che possiamo accomunare: Fuga di cervelli (di Paolo Ruffini, 2013) e Non è un paese per giovani (di Giovanni Veronesi, 2016). Come vedi attualmente la situazione?

Mi permetto di fare una piccola premessa. Io, parallelamente al percorso artistico, ho voluto frequentare l’università, optando per Giurisprudenza. Quando mi sono laureata non sapevo ancora esattamente quale strada avrei intrapreso. Passata la contentezza della laurea, qualche giorno dopo mi sono domandata: «bene e adesso?». Ho sentito la pressione che vige oggi sui giovani, connessa al dire continuamente che, in Italia, non c’è più lavoro né futuro. Sicuramente noi abbiamo sulle spalle un peso enorme, però questo bombardamento che arriva quotidianamente è controproducente.

Bisogna senza dubbio distinguere, onestamente non viviamo in un Paese che offre chissà quali opportunità; tuttavia abbiamo bisogno di fiducia, di qualcuno che ci dica: «ce la puoi fare, nonostante le difficoltà, anche qui». D’altro canto non penso che andar via equivalga a fuggire, esistono tante occasioni in giro per il mondo, ci si può arricchire dando il proprio contributo all’estero ed eventualmente tornare. Siamo in un momento in cui bisogna dirsi: «rimbocchiamoci le maniche, troviamo la nostra dimensione», senza buttar negatività addosso alle giovani generazioni, partendo sempre da un’ottica realista.

Come mai avevi optato per Giurisprudenza?

Mi è sempre piaciuto studiare e quando ho concluso il liceo, ho provato il desiderio di far il magistrato. M’incuriosiva comprendere come funzionassero le cose, la legge e il diritto ti permettono di capire tanti meccanismi. A mio modesto parere l’impostazione dello studio universitario non è ben concepita se pensiamo, invece, all’approccio della professione da avvocato, che è molto pratico, mentre durante il percorso di studi nessuno ti insegna a scrivere un atto o una sentenza.

Ritengo che la propria strada la si trovi sperimentando e avevo bisogno di testare se quella artistica fosse davvero la mia, visto che le prime esperienze erano venute da sé essendo i miei genitori artisti. Non ho mai avuto il sogno di voler fare l’attrice, è stata una consapevolezza maturata nel tempo, allontanandomi da questo lavoro ho scoperto quanto fosse importante per me. Ripensando a ciò che dicevamo dei giovani: non tutti nascono con un’aspirazione, è essenziale confrontarsi con le cose, non bisogna avere paura di mettersi in gioco anche con ciò che è diverso e, a un tratto, tirare le somme riuscendo anche a dire, con serenità: «va bene, non è la mia via, la cambio». Spesso si rimane legati a un “devo far questo”, ma non dovrebbe esser così. Le proprie propensioni non si comprendono fino in fondo finché non si provano e visto che la professione ce la si porta dietro tutta la vita dedicandovi tante ore, vale la pena mettersi in discussione sempre. 

In quest’ottica, anche l’esperienza da modella è capitata per caso?

Desideravo avere un’indipendenza economica, perciò ho cominciato a lavorare nel settore e questo tipo di occupazione mi lasciava anche il tempo di studiare.

Gaia Messerklinger - Ph. Marco Rossi
Gaia Messerklinger – Ph. Marco Rossi

Gaia, hai avuto modo di lavorare con un grande del nostro cinema, Giuliano Montaldo: che ricordo hai de I demoni di San Pietroburgo?

Bellissimo. Si trattava di un film in costume, mi ricordo di questa convocazione all’alba e, malgrado avessi una scena con poche battute, ho ben fissato in mente quel momento: Giuliano venne a parlarmi, spiegandomi la storia e il contesto, con una cura sorprendente. Ripenso ancora con tenerezza a quel momento e, nonostante ci fosse una macchina cinema enorme, mi sentivo completamente a mio agio e nel posto giusto e questo grazie a lui, che è stato di una gentilezza disarmante.

Probabilmente è uno degli ultimi maestri che possiamo chiamare tali…

Appunto. Per me il maestro non è solo qualcuno che ha fatto la storia, con capacità fuori dal comune, ma è anche chi ha voglia di condividere il sapere e di farlo con chiunque. Io, in quella circostanza, ero l’ultima arrivata, eppure mi ha accolta col desiderio di condividere.

Toccando un altro tuo film, L’amore rubato (regia di Irish Braschi), secondo te cosa si può fare per debellare o quantomeno ridurre questo tipo di relazione tra uomo e donna?

In questo lungometraggio ho fatto una piccola partecipazione perché tenevo a esserci e recentemente ho organizzato all’Università di Roma Tre una proiezione proprio di questo film e coi ragazzi si è creato un bel dibattito a riguardo. Ritengo si tratti di un fatto culturale ed educativo e, quindi, il modo più efficace per far sì che le cose mutino è il dialogo. Innegabilmente viviamo ancora in una cultura fortemente patriarciale e siamo ancora in cammino per i tanti passi che ci sono ancora da fare… va lasciata da parte la prevaricazione sull’altro. Uomini e donne devono operare insieme in questa direzione.

Attualmente se ne sta parlando tanto nel mondo dello spettacolo, può questo arrivare a ghettizzare il settore, creando un pregiudizio?

Io sono felicissima che finalmente si parli di ciò che accade. Certo, senza entrare nel merito dei casi specifici, è fondamentale che le donne e gli uomini si sentano liberi di denunciare una situazione abominevole che c’è – e tutti lo sanno – e non esiste solo nel nostro mondo, in quanto il legame tra potere, sesso e lavoro ahimè è sempre esistito. Cancelliamo la vergogna di chi subisce questi atti perché solo mettendo a nudo certe dinamiche si sconfiggono questo genere di meccanismi.

Ovviamente ho sentito persone che dicevano «eh vabbè ma nel mondo dello spettacolo son tutti così», c’è in parte un pregiudizio su chissà cosa accada all’interno di questo ambiente; è una professione come tante le altre e così come accade in altri ambiti, esiste chi sfrutta la propria posizione di potere per ricattare sessualmente chi di potere non ne ha.

Rispetto all’incontro in università, che risposta c’è stata?

È stata molto entusiasta. L’iniziativa faceva parte del seminario “Cinema e Costituzione” organizzato dal prof. Celotto, che prevedeva tre film che affrontavano differenti tematiche sociali.

Mi fa un po’ sorridere parlar di giovani perché sono miei coetanei. Io credo che spesso siamo sottovalutati, vige l’idea che ai ragazzi non interessi nulla di certi argomenti, invece non è così. Loro han partecipato al dibattito con vari interventi. Dovremmo smetterla con tutti questi preconcetti: siamo una generazione diversa da quelle che ci hanno preceduto, così come ogni generazione è diversa da quella passata. I ragazzi hanno voglia di mettersi in gioco e scoprire cose nuove, basta soltanto dargli le possibilità e nel modo giusto. Quando ero una studentessa, mi è capitato di prender parte a convegni autoreferenziali all’ennesima potenza, in cui i relatori parlavano tra loro compiacendosi della propria conoscenza e non erano interessati agli altri. Forse il problema non è dei giovani che ascoltano, ma di coloro che comunicano, che non sanno dar loro i giusti stimoli.

Gaia, cosa puoi anticiparci dei tuoi prossimi progetti?

Non ho ancora nulla di stabilito per cui non posso parlarne. Uno degli aspetti più difficili del lavoro dell’attore è la continuità, che è un grande traguardo: non è semplice raggiungerla. Bisogna lavorare molto bene e anche saper mantenere un grande equilibrio, perché un giorno sei sulla cima e un altro non ci sei più. Il vero lavoro dell’attore è quando non lavori: è lì che si vede veramente il carattere e l’equilibrio.

Non può mancare la nostra domanda cult: c’è un episodio OFF che vuoi condividere coi nostri lettori?

La prima cosa che mi viene in mente è un film girato nel maggio di quest’anno a Pescara, afferente al classico cinema indipendente: questi ragazzi, a un tratto, hanno deciso di voler raccontare questa storia malgrado chi li scoraggiasse perché non c’erano abbastanza soldi o adducendo altri motivi.  Il lungometraggio s’intitola La porta sul buio di Marco Cassini ed è un progetto assolutamente off, una storia molto forte, piena di simboli, che lascia molto pure all’interpretazione dello spettatore. È stato bellissimo. Tutta la vita iniziative off.

Concludiamo questa chiacchierata con un invito a teatro e anche per la serata speciale di San Silvestro. Dal punto di vista dello spettatore, come mai dovrebbe optare per trascorrere il 31 dicembre con voi?

Perché ci si diverte tantissimo e poi anche iniziare l’anno in un luogo come il teatro è un modo magico di attraversare un momento di passaggio e cominciare un nuovo anno. Per quanto mi riguarda sono contentissima di iniziare il 2018 su un palcoscenico facendo uno spettacolo che mi piace tantissimo e lavorando con dei colleghi meravigliosi (Giorgio Lupano e Gianluca Ramazzotti).