Michela Andreozzi: “Sono la più ‘OFF’ della storia delle donne”

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Michela Andreozzi - Ph. Azzurra Primavera
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Michela Andreozzi –
Ph. Azzurra Primavera

Michela Andreozzi riesce a trasmetterti buon umore con la sola voce. Quella genuinità che traspare dalla sua opera prima “Nove lune e mezza” la trasmette in ogni risposta che dà. Di gavetta ne ha fatta, dalle sudate carte di università e corsi specialistici è passata alla gavetta sul campo, iniziando dietro le quinte (collaborazione ai testi per “Domenica In” 1988/1990 e “Non è la Rai” 1992/1995) per poi conquistare gli spettatori davanti allo schermo e nella scatola magica del teatro. Michela Andreozzi è una donna e un’artista che dispensa sorrisi, ma al contempo non ha timore di esprimere le proprie idee ed emozioni. Scopritela in quest’intervista.

Michela, sia tu che chi l’ha visto e ne ha scritto, avete definito “Nove luna e mezza” un film “al femminile”. Non temi che questa espressione possa essere strumentalizzata?

 Viviamo in un mondo in cui ancora si fa distinzione tra femminile e maschile per cui, a questo punto, se lo devo subire, lo cavalco. Poi arriverà un giorno in cui le opere verranno giudicate non come “al maschile” o “al femminile”, però finché c’è una classificazione di genere, preferisco usarla (sorride, n.d.r.). Diciamo che quella definizione serve anche a veicolare un desiderio di far sentire una voce femminile che, in Italia, di solito viene importata dall’estero, facendola nostre. Se riusciamo a dar spazio anche alle voci femminili nostrane e c’è un po’ di “strategia” dietro, per me va benissimo.

Non hai avuto paura di debuttare dietro la macchina da presa con un tema così delicato? (desiderio di diventare mamma e, non potendo, si ricorre alla maternità surrogata, qui tramite una proposta particolare, n.d.r)

In realtà ho scritto contemporaneamente due soggetti: questo e “Sconnessi”, in uscita a febbraio 2018, per la regia di Christian Marazziti. Per certi versi, all’inizio, avrei anche potuto scegliere uno dei due, il secondo è su un tema super-attuale avendo al centro una famiglia che rimane isolata poiché sconnessa da internet. In seguito è diventato un soggetto del regista, il quale l’ha anche portato a termine. Io volevo fortemente esordire con un tema che fosse il più possibile personale e femminile e col maggior numero di elementi che potevo maneggiare con confidenza. Non potevo realizzare solo un film che mi destasse interesse né la scelta dell’argomento è stata dettata da un intento sociale. Mi premeva parlare delle donne come me, che non hanno figli e hanno tutto il diritto di esistere affiancate a quelle donne che farebbero di tutto pur di averne – e ho molte amiche in tal senso – poiché sono due avamposti della donna di oggi.

Non ho avuto, quindi, paura rispetto a questo. L’unico timore che posso avere, come tutti i genitori, è che il figlio (è così che giustamente considera questa opera prima, n.d.r.) venga interpretato nel modo giusto e dai feedback che sto ricevendo mi sembra venga colto con molta chiarezza. Volevo che il lungometraggio avesse una fruizione semplice. Io sono una donna complessa, ma mi piace decodificare e arrivare alle persone ed è saggio veicolare messaggi importanti in modo comprensibile. Per me era fondamentale che “Nove lune e mezza” avesse questo, perché io vivo così, vivo cercando di semplificare la mia vita.

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Hai dichiarato di aver stilato un vero e proprio storyboard, registicamente parlando ci sono dei modelli che ti hanno ispirata?

Ho copiato da quelli bravi. Sono laureata in Filmologia, ho fatto tante scuole tra cui quella di sceneggiatura (la Holden, n.d.r.) e mi sono avvicinata al cinema da innamorata di quest’arte, con grande rispetto e venerazione dei maestri. In più sono una che vede tutto. Per questo lavoro sapevo che c’erano degli appuntamenti che nel mio immaginario ne ricordavano degli altri del cinema che ho amato. Qualcuno ha rintracciato in alcune sequenze di taglio spy l’influsso di 007, per me erano più ispirate a Soderbergh tanto che noi, in fase di lavorazione, le abbiamo sempre chiamate “alla Ocean’s Eleven”. O ancora io amo moltissimo come gira Gabriele Muccino per cui ci sono dei riferimenti al suo stile con l’uso della macchina un po’ morbido e stacchi di montaggio. Sono andata anche a rivedermi tutte le riunioni di Coppola, mentre per i pranzi e le cene ho ristudiato quelli di Monicelli e Scola perché li avevano realizzati in un modo meraviglioso che, per evitare di inciampare, ho guardato a loro. Tuttavia gli inciampi ci sono stati, sono fiera di tutto ciò che c’è di naif in “Nove luna e mezza” perché sono farina del mio sacco e non ho voluto ritoccare nulla in post-produzione. Volevo che conservasse delle ingenuità perché era anche, probabilmente, la parte più onesta del lungometraggio.

Si avverte molto anche il tuo background teatrale…

Sì, alcune scene richiamavano l’impianto teatrale e poi ho usato tantissimi attori che provengono da lì, da Federica Cifola a Nello Mascia, senza dimenticare Nunzia Schiano e Graziella Marina con quest’ultima denominata così da Eduardo De Filippo (all’anagrafe Bianca Basile, l’artista la fece debuttare da protagonista e con questo nome d’arte inMadama Sangenella”, n.d.r.). Ci tenevo ci fosse una matrice teatrale anche perché io vivo col teatro facendolo da tempo e allora, forse, qualcosa di buono dalla scena possiamo anche portarlo al cinema. La stessa Claudia (Claudia Gerini, n.d.r.) è, d’altro canto, tornata sul palcoscenico con “Storie di Claudia”, che abbiamo scritto insieme; Giorgio Pasotti e Stefano Fresi hanno preso parte a “Sogno di una notte di mezza estate” diretto da Massimiliano Bruno. Certi amori non finiscono diceva Venditti per cui si parte da lì e ci si ritorna.

A proposito di formazione, tra i vari studi hai optato anche per il Teatro Sensoriale e il Teatro De Los Sentidos Metodo Vargas, cosa ti hanno lasciato?

Io mi sono laureata con una tesi sulla formazione dell’attore in Italia perciò ho avuto modo di partecipare a diversi seminari anche come uditore. Ho seguito, tra questi, il Metodo Vargas perché lì l’attore è centrale. Il Teatro Studio Blu di Pistoia propone questo genere di spettacoli: si va in scena per una persona soltanto o comunque per un numero ridottissimo di spettatori ed è molto interessante l’interazione diretta. Io porto sul palco opere fortemente interattive, non ho paura. È molto più “spaventoso” un solo spettatore rispetto a cento perché lo devi toccare anche fisicamente ed egli è terrorizzato dall’attore che agisce in tal modo sentendosi in balìa della storia che l’attore racconta. Quindi, da quell’esperienza, mi porto sicuramente maggiore dimestichezza e disinvoltura con la platea.

Nelle tue note di regia hai affermato: «l’idea era quella di parlare di cosa significa essere donna oggi». Al di là di ciò che emerge dal film, per te cosa vuol dire?

È difficile rispondere alle richieste e aspettative a cui una donna è sottoposta in questo momento, abbiamo sempre una marcia in più e una chance in meno. Quest’emancipazione non ci ha fatto benissimo perché ha dato luogo a delle super donne che, come dice il personaggio a cui dà volto la Cifola, devono far la spesa, scattare, twittare, portare il bambino a scuola, lavorare e tutto sempre con una grande nonchalance e performance. Trovo che le madri siano delle eroine comunque. Io ho deciso di dedicarmi alla mia vita di coppia e di essere umano e non di donna e basta.

In “Nove luna e mezza” si rimanda anche al cambiamento del corpo durante la gravidanza. Qual è il tuo rapporto col corpo?

Siamo costrette a rimanere in forma e giovani. Io tra rimanere giovane e bella, preferisco restare bella, ma a seconda dell’età che si ha e poi per quelle come me che sono le ragazze della porta accanto è più semplice invecchiare. Se sei stata Miss Italia intuisco possa essere più difficile relazionarsi col proprio corpo rispetto al tempo che passa. Ad esempio, Susanna Nicchiarelli (regista di “Nico, 1988” sugli ultimi anni di vita di Christa Päffgen, in arte Nico – attualmente in sala, n.d.r.), mi diceva che per Nico la sua bellezza era diventata una prigione, soltanto quando è invecchiata è riuscita a esprimere se stessa. Certamente ognuno la vive a proprio modo, io non ho avuto quel fulgore di gioventù che tu vedi scemare. In merito alla modificazione del corpo, quando anni fa mi dissero: «se vuoi avere un figlio, devi intervenire pesantemente sul corpo» perché naturalmente non ci sarei arrivata, mi è stato chiarissimo che non l’avrei toccato e che per me non era una priorità essere madre. Esistono alcune donne pronte a far qualunque cosa per la maternità, io d’istinto mi sono sentita di non intraprendere quel percorso così forte sul corpo. Nel film, come dicevamo, sono raffigurate tutte le donne così come nella vita rispetto ciascuna posizione.

A proposito di scelte, tu con tuo marito (Massimiliano Vado, n.d.r.) siete stati l’unica coppia etero a unirsi civilmente durante il Celebration Day romano. Nel film c’è una coppia omosessuale (interpretata da lui e Stefano Fresi, n.d.r.). In generale, non avete mai avuto timore di dire la vostra. Tenendo conto della grettezza mentale che ancora vige, non hai mai avuto timore che prendere posizione potesse precluderti delle strade?

Assolutamente no. Io sono per la totale libertà di esistere e di scegliere e sono per la difesa dei diritti di tutti. I cittadini se pagano le tasse hanno diritto ad avere gli stessi diritti degli altri, a essere riconosciuti come nuclei familiari, di affetto, a essere tutelati come tali e ad avere accesso alle stesse possibilità degli altri, che siano le case, gli asili, le cure mediche, i riconoscimenti legali, etc… Noi volevamo raccontare in quest’opera delle famiglie che conosciamo ed esistono già, in più, presumibilmente, quella della famiglia arcobaleno è la più riuscita tra quelle presenti nel lungometraggio, tra loro sono molto equilibrati. Di conseguenza, non ho mai pensato che potessero essermi precluse delle strade, mi hanno educata alla libertà di pensiero.

Sono recenti l’aggressione a Sebastiano Riso (regista di “Una famiglia”, ndr) e la censura a “120 battiti al minuto” di Robin Campillo ed entrambi, ancor più il primo episodio, sono sintomo di ciò che è la nostra società…

Io non ho visto i film per cui non posso esprimermi su questo. Posso dire che aggredire una persona è grave in sé, indipendentemente da chi è, da quali inclinazioni abbia e cosa faccia nella vita.

Qualche mese fa è venuto a mancare Gianni Boncompagni che ti ha scelto come autrice facendoti lavorare con lui per anni…

Mi ha formato tanto e inserire “Rumore” della Carrà nella colonna sonora è anche un modo per ricordare questi legami che ho avuto. Lui prendeva la vita con un’infinita leggerezza ed era consapevole che stava facendo dei programmi leggeri, ma li faceva meglio di tutti. Era un uomo che sapeva fregarsene delle cose che andavano, per l’appunto, ignorate e sapeva, invece, dar peso ai rapporti umani. Io ho lavorato con lui per nove anni perché mi ha scelta, era in grado di vedere i talenti nelle persone, mi parlò del mio a diciannove anni, aiutandomi a coltivare la mia parte autoriale e creativa.

Concludiamo questa chiacchierata con la domanda immancabile: c’è un episodio OFF che vuoi raccontarci del tuo percorso?

Tutto è OFF. Io sono vissuta auto-producendomi per tutti questi trentun anni di Enpals, sono l’artista più OFF della storia delle donne, non sono mai dipesa da nessuno, non ho avuto mentori né pigmalioni, certamente ho trovato produttori e distributori che han creduto nel progetto di “Nove luna e mezza”. Tutto il mio percorso sia da autrice che di attrice è OFF.