“Per vent’anni i Talk hanno screditato Berlusconi”

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Nicola Porro, ex vicedirettore del Giornale, tra i più lucidi giornalisti italiani e conduttore tv, racconta ai nostri lettori la politica che passa tra le maglie del piccolo schermo, tramite la fortunata esperienza di Virus, programma che ha condotto fino al 2016, in onda su Rai 2. I talk show, i grandi personaggi, la “cosa pubblica” nel tubo catodico. Nicola Porro, conduttore di Matrix su Canale 5, si racconta ai lettori di OFF

Ad accendere la televisione si rischia o di sentirsi fuori dai guai o di averne fino al collo. In ogni caso: la prima sarà sempre una sensazione effimera, di breve durata; la seconda avrà un gusto persistente, come l’amaro in bocca. L’intervallo che si frappone tra l’uscita della nuova BMW così sportiva ed affascinante, full optional e ad un prezzo stracciato e l’attimo in cui ci si rende conto di non potersela permettere in ogni caso.

Potremmo esimerci da questa altalena emozionale, così pressante, in un’epoca che già di per sé corre a velocità siderale? Potremmo risparmiarci la spettacolarizzazione del presente? Certamente, basterebbe spengere il Full HD da 42 pollici e, magari, accendere un bel libro o, perché no, distendere la propria anima mettendosi al lavoro tra i fornelli. Eppure diciamocelo, l’uomo mediatico/informatico – in una moderna fusione antropologica e mitologica: metà individuo, metà tecnologia – oggigiorno, non può proprio rinunciare ad essere informato, a conoscere le dinamiche di quella riforma o di quel dibattimento parlamentare; di sapere come andrà a finire giudiziariamente quella vicenda e di prendere una posizione sognando la rivoluzione. Il movente intimo che ci tiene incollati allo schermo, spesso, è un misto di voyeurismo, volontà di approfondire la propria conoscenza della realtà e un ‘sano’ gossip da osteria. Un perenne stato di necessità creatoci attorno che genera un risultato preciso, rendendoci pessimi lettori di quotidiani, ottimi internauti ma, soprattutto, spettatori di talk show. “Siamo immessi in una società in cui viviamo di bulimia dell’informazione. Un’ipernutrizione di informazione. Valanghe di dati, di notizie” 

Ce n’è per tutti i gusti.  Anno dopo anno, l’esercito dei talk show politici è in marcia.

Dalla Rai a Mediaset passando per La7. Due contro due, uno contro uno, uno contro tutti. Poltrone e maxi schermi. Schieramento contro schieramento, Mann gegen Mann, come cantano i Rammstein. Plastici in studio, collegamenti dall’estero e analisi di fenomeni e numeri, tanti numeri, come se piovesse. Più di un’ora di programma, solitamente. Verità versus castronerie, castronerie versus teoremi, paladini e popolo, popolo e politici. E poi eroi improvvisati e telerisse.

Chi più ne ha, più ne metta, pur di compiacere alle sacre leggi dell’auditel, bisogna correre il rischio di metter su, serata dopo serata, talk dopo talk, un vero e proprio show, anche a costo di rimetterci sul piano dell’offerta qualitativa dei contenuti. I numeri vanno inseguiti e raggiunti ed una volta ottenuti, coccolati. Ma è davvero così o esistono esempi virtuosi? E soprattutto: il talk show di approfondimento politico contribuisce realmente al dibattito, accresce le conoscenze politiche, finanche tecniche, dello spettatore, è un mero prodotto dello showbiz o è un format ancora capace di stimolare, di produrre cultura, raffinando il senso critico dell’opinione pubblica?

Dal comizio alla crossmedialità. Dalla tessera di partito a quella della pay tv. Sembrano lontanissimi i tempi in cui, per sapere di cosa dibatteva il Parlamento, per capire dove stava andando l’Italia, bisognava dedicarsi del tempo, in una costruzione costante, metodica della propria attenzione al mondo esterno, un’abitudine civica e culturale. Non sprazzi di improvvisazione. Andare all’edicola sotto casa, comprare il giornale oppure scendere in piazza e, buono buono, trovarsi un posticino per sentire sgorgare carisma e visioni da cui, magari, si riuscisse anche a vedere ‘il capo’ sbattere i pugni sul trespolo. Sentire la gente, vedere bandiere, percepire l’aria della battaglia.

Sembra trascorsa un’eternità da quando Gianni Minoli, animatore di Mixer, con il suo “faccia a faccia” siMixer concedeva un testa a testa, senza esclusione di colpi, con Giorgio Almirante, Enrico Berlinguer o con il politico di turno. L’uno e l’altro, non l’uno contro l’altro, per dare un nome alle cose. Nessuna scenografia barocca, non un tripudio di luci e led. Sfondo monocromatico, la voce fuoricampo di quel presentatore che oggi rimbalza su e giù per lo studio, come un saltimbanco protagonista tra i glissati, gli applausi e le parole degli ospiti; quei conduttori di talk show che, secondo lo stesso Minoli: “hanno abituato i politici a non rischiare niente.

Una pressante serietà che attraeva magneticamente, che riconduceva insindacabilmente ai ruoli e poi alle idee.

Sembra di un’altra epoca quella patina di bianco e nero sulle immagini in onda di Tribuna Politica o i colori timidi di Tribuna Elettorale. La politica si presentava al cittadino, gli si offriva nella sua veste retorica ma chirurgica, per quello che era. Così “La conferenza stampa”, un’interazione pulita e lineare, che mai si discostava dall’eleganza degli interlocutori, mai scadeva nella volgarità, nel luogo comune, nella teatralità da quattro soldi. Nessuno strillo ad innalzare il gradimento popolare, nessuna fuga frettolosa dallo studio.

Ma i tempi sono andati avanti, si sono velocizzati e si sono rifatti il look. Benvenuta rivoluzione digitale! Comunicare la politica e soprattutto i suoi leader, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e successivamente di Beppe Grillo, con l’avvento del berlusconismo anche televisivo e del grillismo, l’analisi della realtà, della società ha risentito di fortissimi cambiamenti.

Dalla funerea solennità alla capacità di andare oltre un solo canale e comunicare il presente, il divenire, la politica e l’attualità sovrapponendo più vie, entrando nelle lande della crossmedialità, laddove il web e la televisione, i linguaggi, i tempi, le modalità, si fondono, atterrando sulle piattaforme digitali. Si amplifica l’interazione tra il mezzo di comunicazione ed i suoi protagonisti; così lo spettatore non va più a cercare il luogo in cui si parla del suo tempo ma viene cercato, coinvolto, messo in mezzo.

Nel frattempo, già si parla di crisi di audience del format che, a sentire gli esperti, da un paio d’anni sta mettendo a dura prova i talk show sulla tv generalista. “La crisi dei talk show è speculare alla crisi della politica, la gente preferisce la cronaca perché ci si identifica di più, è più reale, mentre nei talk c’è un senso di nullità e i temi sono spesso autoreferenziali. La loro unica salvezza potrebbero essere le elezioni anticipate, perché potrebbe tornare ad esserci interesse nella politica”, spiega il massmediologo Klaus Davi. Tra perenne stato di crisi della politica, quindi, e l’impatto forte dei new media, come spiega Carlo Freccero: “La politica ha perso appeal, visto anche il tramonto di Berlusconi e della logica dello scontro, ma è stato internet a rubare la scena ai talk show. Il dibattito vero ormai viaggia in rete. Twitter è diventato lo sfogatoio collettivo e istantaneo nel quale alimentare la rabbia e la contrapposizione. Il risultato è che questo format ha perso la sua drammaturgia, diventando appendice di un evento che si consuma altrove”.

L’evoluzione necessaria è subito pronta e la si può leggere in chiave anatomica: dalla testa della gente, si è passati alla pancia. Allora, i talk show politici, sono costretti ad un cambiamento di rotta che sia capace di riconquistare audience, che torni ad affascinare, cercando un rapporto sempre più diretto ed intimo con lo spettatore, che passi, appunto, per la virtualità, per il coinvolgimento interattivo (partecipando alla diretta, ad esempio, tramite commenti e messaggi), per la flessibilità e lo svecchiamento dei linguaggi della politica e per l’identificazione immediata degli interlocutori che analizzano, affrontano, criticano la realtà politica, l’attualità, davanti alle telecamere. Una strada che si sbilancia sempre più verso l’intrattenimento. In un melange tra politica, comunicazione ed informazione, i talk show diventano sempre più spettacolo: “la tendenza inarrestabile della spettacolarizzazione nasce dal nuovo ruolo dell’informazione […] tutta centrata sulla costruzione emotiva della realtà televisiva”.

“La spettacolarizzazione ha, a sua volta, il suo cardine nella “personalizzazione della politica”, un fenomeno definito da Schwartzenberg come “stato-spettacolo”, il cui fulcro è la “personalizzazione del potere”: la televisione favorisce «la costruzione di persone, cioè di maschere teatrali con cui gli spettatori possano identificarsi e immedesimarsi. […] La personalizzazione della politica non dipende solo dalla possibilità di accesso diretto alla comunicazione di massa da parte dei politici e dei candidati, ma è legata alle stesse logiche espositive della televisione che privilegia le singole persone, le figure umane, le storie ed i racconti ad esse collegate, le emozioni che le accompagnano. E’ più difficile rappresentare in televisione istituzioni complesse e spesso impersonali, come i partiti. Più facile è dare spazio ai loro leader”.

Insomma, tra minacce di estinzione, gradimento da recuperare, intrattenimento e crossmedialità, i talk show nell’universo della televisione generalista: sono ancora uno strumento ancora “utile” allo spettatore oppure no?

Serve un contagio delle idee…

VirusMentre si tenta di andare incontro agilmente a questi spunti di riflessione, c’è bisogno di un contagio che risalti la bontà delle riflessioni e degli approfondimenti. Se è vero che le idee camminano sulle gambe degli uomini, bisogna ristabilire, televisivamente ma non solo, la connessione primordiale tra mezzo e fine, tra uomini ed idee, giustappunto, affinché non tutto ciò che ci viene offerto scada nella pratica estrema del marketing o nello sterile intrattenimento. Occorre, forse, eliminare il superfluo, l’inutile, smussando gli angoli di un format che, come si può percepire, pare essere in crisi. Per farlo occorrono spunti di creatività, elasticità e serietà professionale, affinché il talk show politico possa tornare ad essere un prodotto di qualità culturale, diversificato ed intelligente, uscendo dalla dimensione del ring o del fenomeno da baraccone. C’è bisogno di un accompagnatore, più che di un conduttore, di qualcuno, cioè, che prenda per mano lo spettatore e lo porti nel cuore della ‘serata’, ma soprattutto, delle idee. Al bando i moderatori ed i venditori di pentole.

Nicola Porro, frizzantissimo editorialista e vicedirettore de Il Giornale, ma soprattutto papà e conduttore di Virus, in onda su Rai 2, ci parla del suo programma e fa un excursus sul passato e sul futuro dei talk show.

Come nasce Virus?

Virus nasce nel 2013 da un’idea mia, del mio capostruttura e di Angelo Teodoli. La nostra idea era di fare un dibattito politico ragionato e con poche voci, in cui si mettessero in evidenza casi concreti e punti di vista completamente diversi.

Quali sono i punti di forza del programma ed in cosa si differenzia dal consueto format del talk show politico televisivo?

Noi abbiamo fatto una cosa completamente diversa rispetto agli altri perché abbiamo messo una persona contro l’altra e anche esteticamente se tu cambi canale e vai su Virus vedi due persone. Quindi la prima idea, il primo segnale è quello di vedere due persone contrapposte, il secondo elemento è che sono due persone contrapposte non in funzione dello schieramento politico ma in funzione della soluzione del singolo problema; cioè se la stabilità piace o non piace è indipendente, come si vede in questo caso. Direi che è il primo vero programma post-berlusconiano, nato nel 2013.

Come e quanto è cambiata, secondo te, la comunicazione politica negli ultimi trent’anni, diciamo, prima di Mani Pulite, dall’avvento del berlusconismo fino ad oggi, con Salvini, anche?

La cosa che è cambiata fondamentalmente è che per vent’anni c’è stata una drammaturgia che si basava sulla character assassination che era quella di Berlusconi: prima il conflitto d’interesse, poi il cavaliere nero, poi l’uomo con le escort, poi l’uomo che ci faceva fare le figure internazionali, poi l’uomo che sfasciava i ponti; era tutta basata, quindi, su un nemico preciso, c’erano i difensori e c’erano gli attaccanti, però nasceva tutto dall’esistenza di Berlusconi. Dal ’94 in poi sono passati vent’anni e questo è stato il racconto dei talk show televisivi, ciò su cui hanno prosperato. Il problema è che adesso devono fare i conti con la mancanza di questa character assassination perché non riescono a farla su Renzi anche se qualcuno ci sta provando, seppur ancora non nei talk show. La cosa che mi fa molto ridere è che io sono entrato in RAI nel 2013 e mi hanno considerato un berlusconiano che arriva in televisione e oggi le critiche mi arrivano perché sarei renziano; io sarei rimasto semplicemente e sempre dove sono: sono un liberale, non sono di sinistra.

Dalla sezione alla tv. In questo tipo di approccio, anche con l’avvento dei new media, il cittadino, lo spettatore, l’opinione pubblica, si sono potenziati con l’esplosione dei talk show? O meglio, questa è iperinformazione o comunque contribuisce davvero alla creazione di una forma mentis critica del cittadino, dello spettatore?  

C’è un grandissimo pericolo. Si è passati dalle piazze urlanti alle piazze virtuali urlanti, che sono quelle della rete, perciò la declinazione dell’urlo è cambiata, la sostanza dello scarso approfondimento, della massa che non ragiona è rimasto uguale. Bisogna semplicemente cercare di intercettarla in maniera migliore, perciò è fondamentale andare in quelle piazze dove oggi nascono, vivono, vegetano movimenti, leggende ma anche denunce sacrosante. Secondo me oggi la multimedialità diventa un’esigenza fondamentale perché sennò non intercetti una parte di pubblico, questo è il tema. Tant’è che noi facciamo dalle 20.50 alle 21.20, “retro Virus“ soltanto a beneficio del web, tant’è che la nostra puntata, sostanzialmente, si sviluppa durante la settimana sui social. Secondo me la televisione è il punto finale di un lavoro che si fa prima nella piazza, poi nella redazione, poi, solo dopo, in televisione, che è un pezzettino del racconto.

Virus è un programma che non ha età. Qual è lo spettatore ideale di Virus?

Io sono dell’idea che ogni spettatore è benvenuto a Virus. Per chi fa il mio mestiere, il giornalista, l’importante è diffondere e contagiare le idee il più possibile, quindi non c’è uno spettatore ideale, ci sono gli spettatori punto e basta. Bisogna cercare di parlare a loro nel modo più semplice, più facile. Il problema non sono gli spettatori ma, spesso, i giornalisti che parlano un linguaggio da addetti ai lavori. Dobbiamo parlare per  cercare di convincere sempre più gli spettatori che stiamo dicendo cose intelligenti, o meno, ma comunque, stiamo parlando un linguaggio che loro possono comprendere.

Qual è il futuro dei talk show politici secondo te?

Mi ricordo quando vent’anni fa Pippo Baudo diceva che erano finiti i varietà… I talk show hanno senso soltanto se sono aderenti alla realtà. Siccome oggi gran parte delle persone, soprattutto del popolo più giovane, utilizza diversi pezzi di media, televisioni, clip, social media, web, bisogna cercare di integrare il tutto in maniera più omogenea possibile per non fare una maionese. Il mio blog si chiama “Zuppa di Porro” per intendere, intanto, che non bisogna prendersi troppo sul serio, e che, seconda cosa, bisogna metterci dentro vari ingredienti, per fare un talk show fatto bene, che siano non omologati, che siano diversi dal passato, come sempre, ma che utilizzino tutti quanti i linguaggi.

(Pubblicato sulla rivista di letteratura e media “Indice di Gradimento”, numero secondo)

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Emanuele Ricucci
Emanuele Ricucci, classe ’87. È un giovanotto di quest’epoca disgraziata che scrive di cultura per Il Giornale ed è autore di satira. Già caporedattore de "IlGiornaleOFF", inserto culturale del sabato del quotidiano di Alessandro Sallusti e nello staff dei collaboratori “tecnici” di Marcello Veneziani. Scrive inoltre per Libero e il Candido. Proviene dalle lande delle Scienze Politiche. Nel tentativo maldestro di ragionare sopra le cose, scrive di cultura, di filosofia e di giovani e politica. Autore del “Diario del Ritorno” (2014, prefazione di Marcello Veneziani), “Il coraggio di essere ultraitaliani” (2016, edito da IlGiornale, scritto con A.Rapisarda e N.Bovalino), “La Satira è una cosa seria” (2017, edito da IlGiornale) e Torniamo Uomini (2017, edito da IlGiornale)

2 Commenti

  1. Nella tribuna elettorale del compianto Zatterin, l’addetto stampa del partito affiancava il politico di turno.
    In epoca multimediale perche’ non affiancare al politico di turno un computer col quale documentare le proprie dichiarazioni e, magari ,sconfessare quelle altrui visto che ” menzogne” , segni di diniego,sorrisi di commiserazione occupano gli schermi di ogni trasmissione?
    L’uso di Internet in diretta potrebbe rappresentare un freno per i ” ballisti a tempo indeterminato”; ma se i partecipanti al talk show l’uno contro l’altro armati stanno ” a recita’ ‘” come spessissimo traspare?
    La falsita’ è stata da anni sdoganata; vedi G.Busch e company.
    Il libro ” L’obbedienza non è piu’ una virtu” è stato scritto da un grande.
    Chi avra’ la faccia di scrivere ” La falsita’ è una virtu’ “?

  2. e’ vero, io sono emigrato negli usa a 58 anni dopo inutili tentativi di *fare* qualche cosa in iItalia, difatti qui HO potuto fare, e mi sono assicurato una vecchiaia piu’ che ottima. Ora a 84 anni sono rammaricato a non essere espatriato prima.

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