Eros e libertà: le donne carnali di Piazzalunga

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Io dico alle donne che la faccia è la mia esperienza e le mani sono la mia anima. Qualunque cosa, pur di tirare giù quelle mutandine

Siamo sicuri che Henry Chinaski, a.k.a. il “vecchio porco” poi in BMW Charles Bukowski (ma la BMW, rendita borghese del copyright pubblicista, la tenne per troppo poco tempo), avrebbe fortemente voluto che i disegni a matita e caffè di Giovanni Manzoni Piazzalunga potessero commentare la sue scorribande letterarie tra umori e sudori e pugni in faccia e fica a tutta birra, crackers e sigarette.

Crepax/Valentina, Dylan Dog e le sue amiche specialmente quelle dell’illustrissimo Corrado Roi (ma sono rimasto fermo agli anni Novanta: per quanto ne sappia, ora Dylan potrebbe aver varcato la soglia dell’altra parrocchia e chissà come li disegnerebbe, Corrado Roi, i “david” donatelliani), Milo Manara nelle sue stanze del desiderio, Hugo Pratt e le sue donne e poi, appunto, “Donne”, semi-autobiografia di Mr. Bukowski che potrebbe far da titolo, nudo e crudo, alle serie su carta, matita e caffè (Jackson, rimembri ancora?) che Giovanni Manzoni Piazzalunga consacra alla femmina.

Non vogliamo fare a tutti i costi i politicamente scorretti (sarebbe fin troppo facile, visti i tempi dell’attuale conformismo culturale), ma dire “donna” è dire poco, almeno in riferimento al lavoro d’arte di questo artista trentaseienne nato a Cochabamba, Bolivia e milanese d’adozione, cui importano poco i massimi sistemi visuali della donna angelicata (“questo sesso che non è un sesso“, direbbe la femminista e analista settantiana Luce Irigaray e sappiamo che ci fustigherebbe) e che invece è molto più interessato alla carnalità senza idoli e senza proiezioni ideali, ma anzi “terragna” e soda e già al di là della potenza, delle femmine: perché non esiste la donna, ma l’universo proteiforme e magmatico delle donne, esemplari carnali di un’idea che lasciamo alla Beatrice di Dante e alle Lady Lilith dell’altro Dante, Gabriel Rossetti.

Le donne di Manzoni hanno superato i preliminari della koinè storica e pia dell’arte visuale e han messo in atto la loro essenza carnale. Pornografia?, macché, di là dal fatto che l’han già sdoganata i dottori della filosofia (“Il porno di massa“, saggio non garrulo di Pietro Adamo) e Tinto Brass, noto estetologo verbovisuale del culo -femminile.

Quanto alla dotta distinzione con l’erotismo, la lasciamo a quelli che leggono “le sventure della virtù” sadiane reggendo il libro con una mano sola.

Lo so, vorreste i riferimenti per inquadrare in qualche modo l’estetica di Manzoni: bene, prendete il Beardsley più “estremo”, mescolate (ma non agitate) con James Jean e Kent Williams, aggiungete abbondanti dosi di anatomie michelangiolesche e uno spicchio di muralismo messicano e street art (ma solo per l’aroma) et voilà les jeux sont faits. Puro piacere retinico? Non solo, altrimenti Giovanni Manzoni Piazzalunga non sarebbe un artista ma un turista dell’arte. I suoi disegni vanno molto al di là della sterile “grande bellezza” dell’artista (donna) che s’illude di mostrare a Toni Servillo l’inutile e abusatissima e stra-vista eccellenza dei suoi autoscatti come mamma l’ha fatta. Toni Servillo, nel film, se ne va e la lascia lì, noi, invece, in questo velo di Maya che è la vita vera, quando guardiamo i disegni di Manzoni restiamo e gli diciamo pure grazie: perché c’è un artista, un disegnatore nella fattispecie, non di prima mano, che colma il vuoto lasciatoci dal pittore Guttuso (guai a chi osa giudicare “La vucciria” con pensosità a culo di gallina) e che ci tiene compagnia insieme al giovane (pittore pure lui) Roberto Ferri. Ma, vedete?, questi son tutti pittori: i disegnatori, invece, più o meno giovani, cazzeggiano con l’estetica punkabbestia bru bru, ma il lapis duro per ritrar la femmina, quello no, sembra che non lo tengono pè gnente.