È in onda su Netflix – servizio di streaming da poco sbarcato in Italia – la serie angloamericana «Penny Dreadful» che prende il nome dalle omonime pubblicazioni del XIX secolo ispirate al romanzo gotico. E infatti in «Penny Dreadful» compaiono intrecciate tra loro le esistenze di Dorian Gray e di un licantropo, di vampiri e del professor Van Helsing, del dottor Frankestein e del suo mostro. La produzione – con un’ottima prestazione artistica del ‘vecchio’ 007 Timothy Dalton – non è però una disordinata carrellata di mostriciattoli da ragazzini, bensì una raffinata celebrazione della letteratura inglese, con continui e opportuni rimandi a Wordsworth, Shelley, Keats, Milton.
Dall’Atlantico giunge così l’ennesima lezione su come fare serie televisive accattivanti e anche educative, o almeno capaci di risvegliare l’interesse culturale in chi abbia studiato un po’ d’arte e letteratura. Nel Belpaese alle poesie o ai richiami a Bram Stoker preferiamo la celebrazione dell’italiano cafone di Di Pietro in «1992» o l’infinita serie di fiction poliziesche una più inguardabile dell’altra fino ad arrivare al trionfo dell’ovvietà celebrata in «Tutto può succedere» (con Pietro Sermonti) che in Rete è pure accusata di raccontare in modo fuorviante la «sindrome di Asperger».
Eppure in passato, come racconta il regista Biagio Proietti nel suo volume «Il segno del telecomando» (ed. Rai Eri), la nostra tradizione nel genere gotico era notevole. Pensiamo a «Jeckyll» (1969, interpretato e diretto da G. Albertazzi) o a «Il segno del telecomando» (1971, regia di D. D’Anza) incentrato sul recupero dei diari perduti di Byron.