Come ben sappiamo, spesso è il piccolo schermo a dar la notorietà. Così è accaduto ad Antonello Fassari con la fiction targata mediaset “I Cesaroni”, ma l’attore romano ha un percorso alle spalle di lungo corso partito proprio sulle tavole del palcoscenico e caratterizzato da tanti maestri come Orazio Costa Giovangigli e Luca Ronconi.
La messa in scena de Il Metodo (fino al 22 maggio al Teatro Manzoni di Milano) è stata l’occasione per incontrarlo, approfondendo con lui alcuni aspetti della carriera, ma anche dinamiche che ci riguardano tanto, dal lavoro alla politica, dall’arte ai passi che il nostro Paese ha fatto e deve ancora compiere.
Com’è nata l’idea di mettere in scena Il Metodo e la sua adesione?
So che il nostro produttore, Alessandro Longobardi, aveva già lavorato su testi di Galceran, tra cui “Il prestito”, e ha proposto a Lorenzo Lavia (il regista nda) Il Metodo e lui ha scelto noi interpreti.
Come mai per metaforizzare l’ambiente lavorativo ci si rifà spesso e tanto più ultimamente al mondo aziendale e dei manager o a quello operaio?
I manager sono figure nuove, contemporanee rispetto al Novecento. Nel caso de Il Metodo è anche un pretesto per raccontare in che modo viene selezionata la classe dirigente e dà uno spaccato del nostro tempo. A Roma è andato bene, però, a Milano, più che nella capitale, si avverte che c’è una certa frequentazione con quell’ambiente, si sente forte la presenza dell’industria. Gli spettatori hanno seguito tutto e dalle reazioni che abbiamo visto si capisce che il modo di selezionare che si vede in scena è una cosa più ovvia, i rapporti di lavoro spesso qui a Milano cominciano così. (E con sorriso, profondo rispetto, ma anche senso di realtà, Fassari ci tiene a specificare, nda) Dicendo questo non voglio dire che a Milano siano “santi” e a Roma sono “furfanti”, ma è più difficile che a Roma tutto avvenga solo attraverso un colloquio.
Ne Il Metodo si dice a un tratto: «attualmente il prestigio dei politici è molto basso». Traslando alla nostra situazione, sei in linea con questo pensiero?
Assolutamente sì. Nello specifico di quello che citi tu, in quella scena stiamo facendo un classico gioco di ruoli. Si capisce che l’autore ha creato una ridondanza legata appunto ai politici e io l’ho tradotta con una serie di figure retoriche proprio per sottolineare il senso di retorica e aria fritta, prendendo delle pose che si usavano agli inizi del Novecento quando si diceva “l’attore si attacca alle tende”. In questa maniera qui, da un lato il politico viene messo in ridicolo, però allo stesso tempo credo che faccia un po’ anche pensare a questa figura che non si lega esattamente a un politico in particolare, ma a una classe politica. Galceran l’ha scritto in Spagna, che è una nazione che presenta affinità con noi, vuol dire che la situazione non è poi così lontana. D’altronde credo che nel nostro mondo, quello latino, ci siano tante somiglianze nei politici; mentre il mondo anglosassone è completamente differente.
Quel “gioco” nell’interpretare un politico lo concludo piangendo, sono lacrime di coccodrillo, il pensiero sarebbe: “questi mangiano e piangono pure”.

Ne Il Metodo si parla anche di identità sessuale e se si tiene conto che questo testo è stato scritto nel 2003 fa ancora più pensare come sia ancora così attuale anche su questo piano. Viene spontaneo pensare che forse non ci siamo mossi di una virgola, tu cosa ne pensi?
Io penso che rispecchia abbastanza ciò che succede: noi siamo un Paese a due velocità, da una parte c’è la lentezza della classe politica, contrapposta, invece, alla velocità della gente comune ed è un aspetto che spaventa molto i nostri politici perché sono impreparati su come affrontare questa velocità. In un’intervista in un programma su La 7 che feci ad ottobre parlando di questo spettacolo, si era in un dibattito più ampio e alla presenza di politici, mi sono permesso di dire che si dibatteva di argomenti non risolti vent’anni fa. Quindi siamo così indietro che, ora, cerchiamo di mettere una toppa a situazioni ventennali, quando, viceversa, Il Metodo ti fa capire – già dal 2003 – che le multinazionali avrebbero preso il posto delle nazioni, degli Stati e questi ultimi hanno perso a loro volta la sovranità nazionale e determinano l’economia. Si è visto con la Grecia che basta “un niente” che lo Stato va in default, ma non si capisce perché, i politici non li elegge nessuno (con la giusta ironia l’artista sottolinea quanto ci si affretti a deresponsabilizzarsi, nda) però lo Stato fallisce… credo bisogna riflettere quantomeno sul fatto che noi, comuni cittadini, non contiamo nulla.
Interrogandoti in quanto artista, cittadino e persona: c’è qualcuno che si pone davvero la domanda su come portare lo spettatore a teatro e, ancora, su come ricreare un rapporto sano tra cittadino e politico?
Io farei una riflessione un po’ più generale. In effetti il pubblico va a teatro, quello inteso come “spettacolo dal vivo”, che è una definizione ministeriale per dividere il teatro dal cinema e che a me non piace perché mi fa sentire una scimmia in uno zoo. Non sono un “animale dal vivo”. Il numero di spettatori a teatro è aumentato, come sbigliettamento, rispetto a quelli del cinema, bisogna capire che cosa si va a vedere.
Oggi, le persone che hanno una certa formazione, e come me ce ne son tanti che vengono dagli Anni Settanta, sono un po’ come i cantanti dell’opera lirica in grado anche di fare un repertorio più leggero. Poi ci sono, invece, degli altri attori più legati alla musica leggera. Non faccio differenza tra chi è più o meno bravo, è una questione di impostazione. Questo teatro più leggero, è definibile tale non perché si fa solo intrattenimento, ma perché le strutture teatrali sono leggere, sempre al limite quasi della filodrammatica. Adesso, con la mancanza dei soldi, questa carenza la si avverte maggiormente. Non mi riferisco tanto ai grandi comici che riempiono i teatri tenda, ma alla pletora di commediole dove i personaggi sembrano quelli che vedi nella realtà, ma poi il teatro pretende un altro tipo di rappresentazione per cui alla fine il risultato è la rappresentazione del nulla, soprattutto del nulla dell’insipienza di chi scrive.
Probabilmente, come nel cinema di qualche anno fa, abbiamo un po’ esasperato gli spettatori facendo degli spettacoli anche un po’ pesanti e noiosi, ma che da questi passiamo a quelli stupidi mi rammarica. È molto difficile che un attore più giovane, oggi, possa affrontare il repertorio con quelle capacità tecniche che il repertorio pretende e quindi emerge la tendenza di esprimere se stessi, invece che raccontare la storia. Per me quando il teatro è fatto male, è una delle cose più squallide che possano capitare a uno spettatore, ma anche all’attore. Aggiungo anche che non ritengo sia un problema di soldi, spesso ci si nasconde dietro a questa spiegazione, ce lo insegnano: il teatro lo fai con due persone e un tappeto. Secondo me si è persa l’idea della rappresentazione e poi c’è un grosso problema riguardante il passaggio dalla parola all’immagine. Questo nella formazione di un attore ha creato dei veri disastri, oggi addirittura nelle scuole lavorano con le telecamere, se già in accademia ti insegnano il “come mettersi davanti alla macchina da presa” è già finito tutto…da qui derivano, ad esempio, atteggiamenti molto piacioni.
Tornando all’esperienza de Il Metodo con Lorenzo Lavia, anche se abbiamo una differenza di età, mi sono trovato benissimo perché c’è una sapienza teatrale che io riconosco. Io e quelli che hanno ricevuto lo stesso mio imprinting eravamo felicissimi di fare teatro, di essere dei “tizi sconosciuti” e di fatto dei bravi lavoratori, mentre adesso sembra che non si possa prescindere dal farsi vedere in generale e questo rende tutto più superficiale.
Il grande pubblico ti ha conosciuto soprattutto nei panni di Cesare ne “I Cesaroni”. Tu provi un po’ di amarezza per il cosiddetto potere della tv che quasi “cancella” il tuo percorso precedente, dimenticandosi anche che hai lavorato anche con grandi maestri?

“I Cesaroni” è un fenomeno che capita ogni tanto, com’è stato per “Il Maresciallo Rocca” o “Un medico in famiglia”. Sono prodotti che non solo vanno molto forti, ma entrano proprio dentro le case. Fa stra-parte del gioco e poi fare tutto fa parte della formazione teatrale che noi abbiamo ricevuto. Se un attore non si misura anche con cose più lontane, non cresce. Io a un certo punto mi sono fermato perché Ronconi era da un po’ che non lavorava, Eduardo era morto, sarei un po’ morto appresso a un teatro di genere e in quel momento, al buio, ho cercato altre strade. Sono stato il primo rapper italiano, pure il cinema me lo sono inventato anche perché è un modo di lavorare diverso da quello che si attua in teatro. Io mi devo mettere in discussione ogni volta e mi sono contraddetto sempre ed è un atteggiamento che ha cominciato a portare i suoi frutti, ripagandomi, da non più di sette/otto anni perché oggi nella comunicazione etichettare è fondamentale. Io ho cercato sempre di sfuggire a questa dinamica facendo Vanzina e Ronconi, “Romanzo criminale” (il film diretto da Michele Placido, nda) e “I Cesaroni”. Oggi può apparire strano, ma i nostri grandi attori come Gassman, Mastroianni, Totò lo facevano, c’era questa libertà, sono tutti “problemi” venuti dopo con il controllo dell’immagine o causati da registi che dicono “stai facendo troppo”. Troppo in base a quale regola? A quale conformismo? A quale logica piccolo borghese corrisponde tutto ciò? La vera amarezza è un’altra: oggi l’attore è un signore che serve anche lui a vendere pubblicità.
C’è un episodio OFF che hai voglia di condividere con noi, anche legato al teatro OFF o alla fatica di questo percorso?
Il teatro più alternativo non l’ho mai fatto perché i maestri con cui ho lavorato erano accademici, ma rivoluzionari. In più sono tendenzialmente portato a un teatro di parola, più che a un teatro di immagine, visivo, che è quello più presente nel teatro OFF e quindi mi sono un po’ auto-escluso.
Quando il teatro era un grande business esisteva una serie A e una serie B, adesso è come se una squadra di calcio avesse nel proprio interno tutte le categorie, è tutto un “guazzabuglio”. Negli Anni Settanta si parlava della formazione del pubblico, per esempio, e c’era una certa idea comune di come deve essere il teatro. Ci sono le città come Milano – e questo non è un mistero, lo diciamo tutti – che ha il pubblico teatrale più preparato d’Italia. Saranno stati gli austro-ungarici? Intendo questo per austro-ungarico: a Milano c’è sempre stato un teatro che non si è mai dimenticato la fortune del palcoscenico del popolo, il teatro di Napoli dei Borboni era un teatro di corte con un approccio completamente diverso. Milano, per noi che veniamo da fuori è sempre piacevole, dimostra una struttura culturale che ancora tiene.
(Con tono affabulatorio mi racconta gli inizi, nda). Io ho cominciato perché mia madre viveva a Venezia e lì si faceva teatro. Per lei andare a teatro era un atto della vita normale, una consuetudine e ho iniziato ad andarci già a otto-dieci anni. Non parlo di sacro fuoco, però è chiaro che alla fine, se c’era quella tendenza, tutto quello che ho visto mi ha aiutato tanto. Da sempre ho avuto un’idea alta del teatro e come si poteva non averla vedendo il Brecht di Buazzelli diretto da Strehler o l’Arlecchino sempre di Strehler, gli spettacoli di Squarzina con Alberto Lionello o ancora Paolo Stoppa.
Quali sono i prossimi progetti?
Prossimamente andrà in onda su Rai Uno la fiction “C’era una volta Studio Uno” e la prossima stagione sarò in scena con un testo di Feydeau, “L’hotel del libero scambio”.