
“Mi si sono aggrovigliate le budella”, risponde Julia Roberts, in Pretty Woman, quando la vecchietta accanto a lei, le chiede se le sia piaciuta l’opera. Ricordiamo Julia, in abito rosso, piangere su “Amami, Alfredo”, senza capire una parola eppure afferrando tutto. La lirica traduce la musica con la musica e aggiunge una specie di universalità dialogica alla sua universalità ancestrale. E’, allora, un paradosso che Così fan tutte o Il cavaliere della rosa siano una riserva indiana per pochi (a volte eletti, più spesso parvenu devoti alla passerella della prima).
Luigi Di Bella, modenese del 1971, compositore, direttore d’orchestra e Korrepetitor mit Dirigierverpflichting (ovvero accompagnatore al pianoforte con obbligo di direzione), che già nel ‘98 veniva definito “un Karajan potenziale”, ci racconta che in Germania, dove lavora abitualmente, le cose sono diverse. Se da noi, che la lirica l’abbiamo inventata, i bambini vengono educati a riconoscersi come eredi di Michelangelo ma non di Donizetti, nella terra che vogliamo immaginare come gelida patria della finanza infelice, l’educazione musicale si fa a scuola, con i manuali – mica con un’ora di pianola a settimana. Nei teatri esistono le Kinderoper, spazi in cui esperti allettano i bambini con l’opera: nell’immaginario dei piccoli tedeschi, per intenderci, Tamino del Flauto Magico convive con i Pokemon. Da noi c’è Allevi, che con i suoi clippini cerca di dimostrare quanto sia pop la musica classica, mentre nelle stazioni austriache passano Bach.
Da noi si costringono scolaresche avvezze a canzoni da suoneria a sorbirsi uno spettacolo all’anno di lirica o sinfonica: un raffazzonato tentativo per corroborare la tesi del “pubblico incivile” (come se il pubblico dovesse educarlo il liquido amniotico).
Esiste, poi, una questione di funzionalità: i teatri teutonici propongono spettacoli quotidiani, sono macchine in continua attività e ciascuno dispone di un ensemble di cantanti solisti stabili. In Italia tutto è appaltato ad agenzie che propongono pacchetti completi, senza che la produzione possa scegliere secondo un criterio qualitativo. La prontezza richiesta a un direttore tedesco è doppia: “cerco quotidianamente di ingrandire il mio repertorio”, dice Di Bella (non essendo affiliato ad agenzie, in Germania un direttore lavora spesso “su chiamata”). Purtroppo, altrettanto ricorsiva e quotidiana è la sua amarezza sul futuro della musica “alta” in Italia, ridotta a impolverarsi sugli ultimi scaffali dei supermercati. Quelli, sì, altissimi.