Un romanzo sul Nordest al tempo della crisi
Alla domanda “ci si può affezionare ai personaggi dei libri come fossero reali?” è facile rispondere: “sì”. Alla specifica “quanto intimamente entra la vita di un personaggio da romanzo nella nostra reale?” si aprono invece diverse risposte che sottendono capacità, propensioni e preferenze. Beh, vi posso assicurare che Nadia e Gabriele si ritagliano lo spazio, in chi legge, dei vicini di casa che ogni sera, rientrando da lavoro, incroci sul pianerottolo o degli amici a cui sei affezionato e di cui ti interessi. Nadia e Gabriele sono i principali protagonisti del romanzo “Dove si va da qui” (ed. FandangoLibri, 2014, pp. 307) e si aggirano in Nordest schiacciato dalla Crisi -sempre appellata in maiuscolo- che fa a frantumi quell’“isola felice” che era fino a pochi anni prima.
I personaggi dello scrittore pordenonese 33enne Simone Marcuzzi si muovono su un terreno fragile fatto di crescita, personale e di coppia, e di ambizioni, familiari e lavorative, che poggia su un mondo di decrescita, che sta precipitando a livello economico e sociale. Nadia e Gabriele sembrano due eroi romantici destinati a combattere il mostro dell’infelicità che attanaglia e condanna la maggior parte delle persone, assorbendo ogni sentimento, ogni sogno, ogni ambizione di normalità. Ed è proprio quando il lettore si trova a prendere le parti di uno dei due contro il resto del mondo che si accorge, ormai tardi, di averli accolti stabilmente in casa sua e di non poterli più cacciare fuori. Perché loro sono lui; perché il mondo che Marcuzzi racconta è quello che tutti noi vediamo ogni giorno, nei tragitti da casa al lavoro, nei racconti degli amici, nei silenzi con genitori e fratelli, nell’inevitabile confronto tra due generazione che sembrano appartenere ad epoche lontane migliaia di anni le une dalle altre. E Marcuzzi, esponente di quella “generazione perduta” in un limbo di eterni precari e irrealizzati, solo quattro anni fa portava il protagonista di “Vorrei stare fermo mentre il mondo va” (Mondadori) Rodolfo ad affacciarsi goffo alla vita adulta, coi suoi 18 ancora leggeri di quelle decisioni e responsabilità che sono invece il pane quotidiano di Nadia e Gabriele. Quattro anni che rappresentano un balzo cronologico di almeno 15, una contemporaneità che non si può evitare, un’evidenza che ci schiaccia nella storia e ci mette davanti allo specchio di un diventare adulti tra scelte personali e logiche produttive, difendendo uno spazio raccolto ed intimo in mezzo alla multinazionalità in espansione, barcamenandosi nella ricerca di un equilibrio tra profit e no profit, resistendo alla monotonia di giornate dove “entri al lavoro con il buio, esci dal lavoro con il buio. E la luce se ne sta altrove, la vita”. Da una parte un ingegnere (esattamente come l’autore), che da manager si trova ad affrontare il tracollo economico della sua azienda, di cui ha la responsabilità morale del capitale umano, prima che di quello industriale; dall’altra una veterinaria, una ragazza estroversa ma con semplici sogni di normalità, ed una passione diventata lavoro. Una convivenza che da automatico equilibrio si fa difficile prova di sopravvivenza, a se stessi, alla coppia, al resto del mondo che chiede regole di appartenenza o dichiarazione di estraneità. Famiglia, amici, colleghi di lavoro, tutto gira attorno a loro due, alle due individualità che tentano di incastrarsi in unicità nonostante le differenze, nonostante le cose cambino anche se non lo si vorrebbe.
Una scrittura precisa e puntuta, delicata e cortese allo stesso tempo, depositata sulla pagina in punta di piedi, onesta e veritiera esattamente come chi la appone, riuscendo con naturale propensione narrativa a miscelare gli aspetti più tecnici e oggettivi a quelli introspettivi e riflessivi. Si agita in Marcuzzi e nella sua scrittura un’anima secca, nitida, disincantata ma al contempo elegante, timida e molto educata, che chiede permesso per avanzare ma che sa trovarsi un posto al riparo da ogni frattura e contraddizione stilistica. Alla stessa maniera, i personaggi e la cornice sono presentati in questo libro con lucido distacco, con voce narrante da spettatore interno che illustra le condizioni lavorative di un Nordest senza luce di progresso umano.
L’ironia arriva quasi inaspettata, a stemperare la tensione di un diverbio, l’amarezza di un litigio; è questo Marcuzzi, che si fa largo a spintoni tra le parole accese dei suoi protagonisti, che si insinua tra i malcelati pensieri proibiti, a minacciare un equilibrio precario, a suggeriscono una rivoluzione all’orecchio. Dove si va da qui. E se ci fosse un punto interrogativo funzionerebbe bene lo stesso, anzi, verrebbe voglia di aggiungerlo al titolo già a metà della storia, ancor di più dopo quel finto finale che rasserena quel tanto che basta a credere che sia finita là, ma che lascia presagire un finale aperto, come aperta è la partita che questa generazione ancora sta giocando. Una normale apparenza che nessuno vuole indagare, un’apparente normalità che assomiglia al Tagliamento, il fiume carsico che taglia a metà il Friuli, dividendo la provincia di Pordenone da quella di Udine, e che dietro la sua mite immagine addormentata rivela nelle piene una “forza soprannaturale sottintesa, covata implicitamente”. Allo stesso modo, le cose non sempre sono “quello che sembrano. La superficie è ingannevole. La verità sta sotto”.
