Sergio Leone, il distruttore di stereotipi e manicheismi

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Padre degli spaghetti western, fu soprattutto un innovatore che riprese la commedia umana

Come rigattieri della cultura si va alla ricerca di tracce. Capita d’imbattersi in una quasi sceneggiatura sull’assedio di Leningrado. Sono appunti custoditi – giurano i biografi – negli archivi della Leone Film Group e abbozzano una riflessione profonda sugli orrori della guerra in filigrana di una vicenda sentimentale tra un reporter americano e una ragazza russa. Erano gli anni di Gorbaciov e il regista deve avere avvertito che lui, Leone, come Tolstoj poteva raccontare, per emozioni e immagini, una storia d’Amore e Pace. Noi rigattieri quando abbiamo la fortuna di scovare un oggetto che è andato oltre il tempo cominciamo a sviluppare fantasie. Così viene fatto d’immaginare che vi fosse a Pratica di Mare un magnete di sentimento e d’emozione che ispirò Silvio Berlusconi nel maggio di 22 anni fa.

Era il 28 del mese mariano quando nella base dell’aeronautica fece stringere la mano a George W. Bush e Vladimir Putin: eredi di opposti mondi eppure necessari l’uno all’altro. Pareva quell’incontro l’inizio sequenza di nuovo infinito confronto orientato alla pace. Non era il triello – è bene sapere che un quiz Rai popolarissimo s’ispira al finale del film e ne usa le note di Ennio Morricone – de “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” eppure vi somigliava: c’era l’opportunità di spartirsi un bottino di affidabilità reciproca mantenendo ciascuno i propri demoni. Ci fosse stato Sergio Leone ne avrebbe fatto, con la musica del suo compagno di scuola, la sceneggiatura di una sfida memorabile. Primi piani strettissimi sugli occhi, indizi ricercati nei volti, l’irrompere sulla scena come ectoplasmi di pensieri e intenti muti e inconfessabili, ma reali, concreti. Si fosse seguita quella scia, si fosse portata Mosca nel posto che le assegnano la storia, l’affinità culturale e cioè nel cuore dell’Europa oggi non staremmo contando i morti sul fronte ucraino. Lì a Pratica di Mare tredici anni prima Sergio Leone, il narratore del relativismo umano per cui non ci sono mai un bene, un male e un brutto assoluti, aveva chiesto di posare il suo corpo fiaccato da un infarto: la sua anima anarchica ostile a chi racconta la Storia solo dalla parte dei vincitori, a chi non distingue il mito dal reale forse fertilizzò quell’intuizione di Berlusconi. 

Impossibile dirlo, felice pensarlo. Tornano in mente osservando in quel camposanto il tempietto stilizzato – avrebbe bisogno di maggior cura e dignità – che accoglie l’ultimo letto del regista i versi di Ugo Foscolo: “A egregie cose il forte animo accendon l’urne de’ forti e bella e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta”. A Pratica di Mare c’è questa Spoon River che ci interroga sull’incuria della memoria di un genio. L’amenità dei luoghi la rende però meno urgente, anche se è urgente recuperare il senso di Sergio Leone. Per riproporlo in una contemporaneità orfana della socialità della sala cinematografica e sorda alla provocazione ontologica insita in quelle pellicole.  La carriera di Sergio Leone, figlio di un grande regista del muto e di un’attrice, dunque intriso del bisogno di finzione per testimoniare la realtà, comincia con una manovalanza intellettuale e tecnica. Firma, o quanto meno dirige, una serie di peplum, i  film dall’illusione ottica sul mondo romano: la sua prima regia accreditata è Il colosso di Rodi. Ma Sergio Leone che da adolescente resta ammaliato da “Ombre Rosse” di John Ford ha dentro un’altra storia: è affascinato da Federico Fellini (proverà a rifare I Vitelloni), frequenta il neorealismo. È in questo confronto tra racconto di strada e mito che matura l’idea di desacralizzare lo stereotipo. L’esempio c’è: Akira Kurosowua. Nasce “Per un pugno di dollari”.

È rivoluzionario per le inquadrature e perché la musica non sottolinea le scene compiute, ma le genera in una sinestesia che stimola lo spettatore e lo porta dentro l’azione (così lavoreranno sempre Leone e Morricone) è il film che farà nascere il genere spaghetti western in cui però è difficile catalogare la ricerca di Leone. Che mira a indagare altro. Distrugge il racconto stereotipato all’americana dove vincono solo i buoni, è una sorta di ripudio del fordismo (inteso come John Ford) ed è il trionfo del neorealismo. I suoi anti eroi sono appunto sporchi, brutti e cattivi. Puzzano di carogna perché sono carogne, ma anche i più abietti hanno un codice. Una morale? Noi posti di fronte a loro siamo assaliti dal dubbio: davvero ci è concesso di scagliare la prima pietra? La provocazione culturale-intellettuale di Sergio Leone sta prima di tutto in questo. Joe (Clint Eastwood che tutto deve a Leone) non ha un destriero, arriva a dorso di mulo, non è un giustiziere, ma uno che spara per campare. Lo hanno definito un antieroe, potrebbe essere un precario in cerca di sbarcare il lunario. A dire cos’è il cinema di Sergio Leone basta questa frase: “Quando l’uomo col fucile incontra l’uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto”. Non sa Ramon Rojo (Gian Maria Volontè) che Joe (Clint Eastwood) è protetto da una lastra di ferro. Lo smarrimento del tracotante di fronte all’evento imprevisto è la sincope dell’esistenza, una sorta di epifania del male o del destino. È questa l’immensa forza di “Per un pugno di dollari”: il riscatto non passa per la buona azione, ma attraverso la sopravvivenza. Quentin Tarantino quando dieci anni fa, a mezzo secolo della sua prima proiezione, la pellicola restaurata venne ripresentata sentenziò: “Questo film non segna solo l’inizio dello spaghetti western, ma anche del cinema moderno”. Con “Il buono, il brutto e il cattivo”, preceduto da un altro capolavoro come “Per un pugno di dollari” dove di nuovo Eastwood e Volontè squadernano la chimica di una relazione dannata e tossica, Leone entra nella piena maturità registica. È il terzo della trilogia del dollaro che non può non essere visto in sala: c’è bisogno dell’affanno collettivo per renderlo totalmente drammatico.

Leone non affida mai all’epopea il risultato scenico: è l’incalzare dei caratteri umani a generare il pathos, sono i piani sequenza e le note di Morricone a alimentarlo. Serve la pressione da “tifo” e la sospensione dei sentimenti collettiva a restituire la pienezza dell’azione. Sarà così anche per i capolavori dell’ultimo Leone. “C’era una volta il West”, “Giù la testa” con quell’ultima frase di Juan: “E adesso io?” che è l’angoscia di chi vede crollare certezze o mondi (non importa se buoni o cattivi) e sommamente “C’era una volta in America” capolavoro assoluto con un immenso Robert De Niro sono i film in cui il regista usa il tempo come descrittore di stati d’animo e come acido per dissolvere stereotipi. Ciò che resta è l’uomo nella sua miseria. Che a veder bene è raccontata anche nelle collaborazioni che Sergio Leone offre a Carlo Verdone quasi come padre premuroso. Anche in film come “Troppo Forte” l’imprevisto e l’imperscrutabile, che qui hanno esiti ironico-comici, nell’impossibilità del riscatto di un’esistenza sono la testimonianza dell’eterno gioco della vita. Per questo a Pratica di Mare dove approdato Enea la Storia corroborata dal mito ebbe un colpo di manovella, ogni giorno quando si alza il sole è come se dicesse: “ciak si gira”. La commedia umana.