Dal mito greco al sogno felliniano, Vincenzo Iantorno e l’ascolto come dono dell’arte

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Vincenzo Iantorno, attore eclettico dai tanti prodigi è un giovane le cui basi nascono e si sviluppano nel teatro. L’indagine sui grandi classici greci e latini lo sta portando a notevoli traguardi come avvenuto per Le metamorfosi di Ovidio di e con Francesco Polizzi. Abbiamo dialogato con lui sul teatro come mito che apre le porte del fantastico e in cui si manifesta l’eterno gioco della natura umana.

 Che idea hai del classico? È un punto di contatto con l’eterno?

Durante il lockdown ho scoperto in me una grande spiritualità che nasce ovviamente dal mio essere cattolico, ma per finalizzare i miei sensi in un’ottica più energetica. L’attore fondamentalmente lavora a stretto contatto con l’energia e per cui riesce ad essere  forse più empatico rispetto a ciò che accade nel mondo. In questo periodo mi sento molto attratto dai luoghi di culto e non parlo soltanto di chiese o monasteri. Chi entra in un luogo sacro lo fa perché confida in una speranza e questa è sempre energia positiva. Per quanto riguarda il classico, il teatro è stato inventato per mostrare i comportamenti dell’uomo all’uomo, per prendersene gioco inizialmente. Credo che il comportamento umano sia alla base sempre lo stesso e quindi i testi classici siano eterni proprio perché raccontano qualcosa che sarà sempre attuale.

Il tuo lavoro più recente è Le metamorfosi di Ovidio sulla scena con Francesco Polizzi. Come hai affrontato il testo?

Mi affascina tantissimo la profondità di Ovidio  ma anche di Shakespeare. Giganti che hanno indagato a fondo l’umano analizzando il contesto storico in cui vivevano ma comprendendo anche le dinamiche interne all’essere. Per questo riescono sono sempre straordinariamente attuali. Lo stesso vale per Plauto e la nascita della commedia. Una delle cose che ho amato di più di quest’esperienza con il testo di Ovidio è stata quella di poter essere eclettico e versatile perché ad ogni scena vestivo personaggi diversi e l’ho affrontato divertendomi e lavorando sull’ascolto dell’altro in scena.

Il teatro greco è una narrazione che, attraverso un rito catartico, cerca di elevare lo spirito. 

La notte di natale sono andato alla messa di mezzanotte, come se avessi sentito una sorta di chiamata e devo dirti che il pregare ha avuto su di me un effetto non indifferente. Alda Merini diceva di parlare con Dio e secondo me non era così fantasiosa o ironica la sua affermazione in quanto possedeva una sensibilità così elevata che il suo dialogo forse era interiore. Guarda, io sono perennemente convinto che il saper regalare un sorriso possa contribuire in minima parte al miglioramento di alcune giornate delle persone. Ognuno di noi è in lotta con il proprio buio durante il giorno e allora, cosa costa un sorriso? Sembrerà banale ma per me è fondamentale donare attraverso l’arte una luce al pubblico. Un’altra cosa fondamentale è l’ascolto ed il saper ascoltare, per un attore, rappresenta un passo importante perché se in scena non ascolti il tuo compagno poni davanti a te uno schermo da cui scaturisce un vuoto che rende il tutto per nulla credibile. 

Hai girato molti corti ma vorrei concentrarmi sullo spot “Campari” dedicato a Fellini. Com’è stato passare dalla fiaba greca a quella felliniana?

È stato magnifico. Mi sono sentito immerso nel mondo onirico di Fellini. C’era l’uomo pinguino, l’uomo elefante, il vigile giapponese che dirige il traffico e devo dire che ho capito ancora di più il perché fosse un genio. Noi giravamo al Salone Margherita a Roma e ad un certo punto è stata girata la scena di un sogno e nel buio si muovevano delle  luci che fornivano un effetto etereo e mi ha trasmesso una sensazione strana, ho creduto veramente di essere in una dimensione onirica.