Il nuovo millennio si è affacciato da pochi giorni, quando, il 23 gennaio, Bettino Craxi muore nella sua residenza tunisina. Nel ’94, condannato per corruzione e finanziamento illecito, “Il Presidente” aveva lasciato l’Italia, scegliendo l’ “esilio forzato” ad Hammamet per sottrarsi all’arresto, oramai imminente.
A vent’anni esatti dalla morte del leader socialista, il nuovo film di Gianni Amelio – in sala con 01 Distribution dal 9 gennaio – Hammamet si sofferma sul versante intimo e meno conosciuto di Craxi, sui suoi ultimi mesi di vita trascorsi in Tunisia in cui si alternano rancore, solitudine e malattia, focalizzandosi su tre assi narrativi: il “re caduto”, il rapporto con la pugnace figlia, “Anita” (Livia Rossi) – un tributo del regista alla moglie dell’eroe dei due mondi tanto amato da Craxi – e un terzo personaggio, di fantasia, Fausto, figlio di un compagno di partito che, dopo il suicidio del padre, arriva inaspettatamente ad Hammamet recando con sé una telecamera oltre che una pistola (forse per vendicare il padre suicida).
Il risultato non è – e non vuole essere – un documentario, tanto meno un biopic. E’ un film che guarda all’uomo, lasciando la vicenda politica di Craxi e dell’Italia di quegli anni, dalla “Milano da bere” all’inchiesta del pool di Mani Pulite, solo sullo sfondo.
Il film si apre (unica concessione al Craxi politico) sul suo discorso conclusivo in occasione del 45° Congresso del PSI, nel maggio ‘89, nell’ex fabbrica dell’Ansaldo a Milano, in cui verrà acclamato per la sesta volta segretario del partito.
E’ in quella occasione che Vincenzo, uno dei suoi più fidati compagni, cerca di aprirgli inutilmente gli occhi mostrandogli il baratro incombente. Il film vira quindi, da subito, sul versante intimista, quello dell’uomo sofferente, abbandonato dal proprio Paese, malato – con un diabete invalidante che mette a rischio la riuscita degli interventi cardiologici cui dovrà sottoporsi – perseguitato dai propri demoni che non lo mollano un istante, incapace di accettare il proprio fallimento politico per essersi macchiato, del resto, a suo modo di vedere, di una colpa comune a tutto il panorama politico italiano: l’aver accettato finanziamenti occulti per il bene del partito e, in definitiva, per quello del Paese.
Il tentativo di Amelio è coraggioso: non era facile confrontarsi con uno spaccato così scottante della nostra storia recente. Una vicenda ancora calda per il Paese. Ma il suo sguardo è distaccato, né giudicante né assolutorio. Ci parla di un uomo messo in sordina, che si vuole dimenticare nonostante il rumore del suo passato; che “scava dentro memorie oscure” e che non vuole essere una cronaca fedele, ma neppure un pamphlet militante. “L’immaginazione può tradire i fatti realmente accaduti ma non la verità”.
Il risultato è eccellente – anche se, prevedibilmente, non troverà il plauso generale e farà certamente molto discutere, trattandosi di eventi troppo vicini a noi – sia per l’accurata fotografia affidata a Luan Amelio Ujkaj, figlio del regista, sia per le musiche del Maestro Piovani ma, soprattutto, per l’interpretazione straordinaria di Pierfrancesco Favino, che segnerà la sua definitiva consacrazione ad attore di culto, che, con 5 ore di trucco, ha abbandonato se stesso per diventare il “Presidente”, di cui offre un’immagine fedele, oltre che una prossemica straordinaria, riproducendone, alla perfezione, la voce e la gestualità.
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