Valentina Ruggeri: ottimista di natura, è terrorizzata dalla routine perché adora sperimentare e mettersi alla prova. Il grande pubblico l’ha conosciuta grazie a Il paradiso delle signore dove ha partecipato col trio delle Ladyvette. Ha alle sue spalle una solida formazione e tanta voglia di maturare ancora. In questi giorni è nel cast di Catch-22, la nuova serie originale Sky diretta e prodotta dal Premio Oscar George Clooney, ed è da qui che siamo partiti per la nostra chiacchierata.
Come nasce il tuo coinvolgimento?
Mi hanno contattata per un provino su improvvisazione. Sapevo soltanto che avrei dovuto interpretare una prostituta nel ʼ43 a Roma e di dover sedurre un soldato americano – perciò era da tener conto della barriera linguistica e lì ho optato per il canto. Non immaginavo che Clooney avrebbe visto tutti i provini. Quando sono arrivata sul set, mi ha cercata e proposto di aggiungere una scena in cui cantavo a cappella nel bordello. L’ha inserita in un momento in cui è diventata realmente un pezzo strappacuore, assumendo un significato estremamente toccante e malinconico. Al contempo ho girato anche un momento molto sensuale – a seno nudo – con un giovane ufficiale inesperto. Ci hanno lasciato liberi ed è risultata una scena gioiosa e carnale. Nella serie il mio apporto è piccolo, ma funzionale e sono felice di averne fatto parte.
È un passo importante anche nella tua carriera…
Sì è la mia produzione internazionale, in sé di grande livello e significato. Mi piace che sia ambientata in Italia ed è un progetto forte politicamente.
Puoi approfondire questo elemento?
Il libro da cui è tratta, Comma 22 di Joseph Heller, è antimilitarista. Raccontando la vita e il momento della guerra dal punto di vista dei giovanissimi aviatori americani, emerge costantemente il paradosso della guerra. È straziante perché mentre assistevo agli episodi pensavo: sto guardando una bellissima serie però non dimentichiamoci che quei ragazzi erano nella base di Pianosa e che realmente sono morti così come gli italiani e come tanti civili. Catch-22 arriva alla pancia e l’aspetto più toccante e terribile sta nel suo mostrare il costante terrore dei ragazzi che ogni giorno temevano di morire.
È interessante vedere come Roma e quel periodo vengano raccontati dagli americani…
Nei bordelli durante quegli anni non esisteva nessuna prostituta per scelta, farlo era l’unico modo per riuscire a mangiare e questo l’hanno voluto mostrare scegliendo delle donne popolane senza nessun tipo di allure. Sono sgualcite, sdrucite, portano abiti rovinati e devono fare i conti con la reale povertà .
Mi ha colpita il tuo riferimento alla libertà durante la lavorazione. Come mai c’è da noi ancora il tabù in merito al nudo?
Mi sento a mio agio quando la scena richiede in maniera coerente il nudo. Se mi si chiedesse di spogliarmi a unico scopo di pruderie mi sentirei un oggetto. A livello sociale spesso la gente non guarda il senso che ha quel nudo, cosa dovrebbe provocare sul piano emotivo, ma si vanno a vedere le imperfezioni o le dimensioni. Il corpo dell’attore si presta alla trasformazione, siamo pronti a interpretare tutti gli aspetti della vita umana e sensualità e nudità ne fanno parte. È essenziale educare il pubblico a questo. Nel cinema internazionale, a parte i bellissimi e le bellissime, esiste una grande varietà di corpi. Da noi meno, non riusciamo ancora a godere della diversità sul piano fisico, si tende a mostrare un certo tipo di persona. È bello variare così come vedere le donne con le rughe, per fortuna stanno arrivando delle richieste di provini in questa direzione e mi auguro si prosegua. La parte più stimolante da raccontare è il difetto – che sia fisico o psicologico. L’intelligenza dei registi consiste anche nel riuscire a compiere delle scelte coraggiose e in controtendenza.
Nel tuo percorso professionale hai riscontrato questa apertura da parte anche dei casting?
È un problema con cui mi sono sempre scontrata. Io non sono una bellezza canonica, ma ormai pure le giovanissime e belle hanno il timore di non essere abbastanza. Purtroppo a volte per i casting leggi: cerchiamo una persona alta 164/165cm, che pesi tra 40 e 45 chili, senza guardare cosa possa restituire un attore. Non so quale sia l’anello mancante della catena però sono sicura che quando si opta per decisioni più oculate e raffinate è più interessante. Quando vengono a vederci in scena, spesso il regista e il casting director si stupiscono nel constatare cosa l’artista è in grado di fare e questo è sintomatico di come bisognerebbe dare lo spazio di dimostrare le proprie abilità , al di là di determinati canoni.
Quanto ti è stata utile la formazione tra Londra e New York?
Tantissimo. Ho imparato delle tecniche che non so quanto siano applicabili in Italia però è sempre meglio possedere più frecce al proprio arco e poter scegliere il metodo che funziona su di te. Mi sono scontrata anche con un modo diverso di vedere la professione. A New York ho notato delle differenze di approccio: gli insegnanti di recitazione anziché dirti bravo o riprenderti in un aspetto, ti indicano il modo con cui ottenere la parte perché lì è tutto più basato sull’industria cinematografica. Certo, a volte, avrei desiderato ricevere più dei feedback “artistici”.
Cosa ti porti dell’incontro con Anna Marchesini durante gli studi alla Silvio d’Amico?
Ci ha fatto comprendere che la comicità è una cosa difficilissima e poetica. Ci diceva: «non abbassiamo il livello, la comicità è un’arte sublime». Ricordo ancora il giorno in cui mi ha suggerito di non essere severa con me stessa perché avevo fatto un errore. Una volta dovevo entrare in scena e non appena fatto un passo mi stoppò. Al che le chiesi: «non ho ancora cominciato, cosa ho fatto?». E lei mi disse: «sei entrata con un tempo sbagliato. C’è n’è uno giusto, in cui entri e sei». Rifeci quell’azione almeno per cinquanta volte fino a quando ho compreso. Mi dispiace che non abbiamo avuto il tempo di goderne di più.
Condividi con noi un episodio OFF?
Dopo l’accademia ho avuto la fortuna di cominciare subito con una tournée con Carlo Cecchi ed è stato importantissimo perché il primo approccio con il mondo del lavoro serio è stato con un grande maestro. L’aspetto più bello che mi manca di quell’esperienza è lo stare via cinque mesi, con una valigetta e godere della vita itinerante. Adoro del nostro mestiere il poter viaggiare, incontrare gente nuova, con diverse competenze. Tutto ciò implica una continua crescita.
Fai parte del trio delle Ladyvette, come si fa parallelamente a mantenere una propria identità e al contempo a fondersi con la “band”?
Siamo tre donne toste, con una forte personalità , ma capaci di mettere da parte il proprio individualismo per il fine del gruppo. Parallelamente coltiviamo la carriera personale e siamo felici l’una dei successi dell’altra. Per stare bene in un gruppo è fondamentale riuscire a stare bene da soli per non portare le proprie frustrazioni all’interno della vita dell’ensemble. Il doppio binario è salutare. Chiaramente le Ladyvette è un progetto fondamentale, che adoro, in cui credo tanto e che vedo crescere di giorno in giorno compiendo tutte moltissimi sacrifici. Quando ognuna di noi ha un proprio momento, le altre sono pronte a sopperire la mancanza e a sostenere. Le nostre diversità si amalgamano bene sia sul piano artistico che umano ed è un punto di forza.
Quali sono i prossimi progetti?
Con le Ladyvette stiamo preparando nuove uscite andando ad esplorare altri ambiti. Ho dei progetti di cinema indipendente, ma finché non sono certi, sono scaramantica, preferisco non sbilanciarmi. Mi piace scrivere per il cinema, mi sono già cimentata col mio compagno nella scrittura di cortometraggi e voglio farlo ancora, magari anche con un lungo.