Silvestro Pascarella fa il giornalista. E’ una delle colonne portanti della Prealpina di Varese. Pur avendo meno di cinquant’anni, da quasi trenta è al desk della pagina di Busto Arsizio. Oggi ne è il responsabile. Pascarella è il redattore perfetto: ogni santo giorno che dio manda sulla terra, lui si smazza la pagina, più pagine; le pensa, le disegna, le titola, le corregge, le chiude. Inoltre scrive: magari anche due o tre articoli di seguito. Non c’è sforzo, sembra, in quel lavorio. Seduto, gambe stese sotto la scrivania (d’estate sandali), le mani battono veloci sulla tastiera mentre lo sguardo vaga altrove, risponde al telefono, parla col collaboratore, fa il titolo, rintuzza le velleità del politico di turno. Pascarella, apparentemente cinico, disincantato, al contempo ricco di umanità, se dovessimo usare una vecchia terminologia da mestieraccio, è un “culo di pietra”, quell’essere mitologico, un ircocervo, tipico delle redazioni, meta sedia metà computer. Col paradosso che però lui è perfino un fenotipo slanciato, un atleta. E si vanta dei suoi trascorsi da quattrocentista. Per anni ha fatto la spola da Castellanza, dove abita, alla redazione, con un vecchio motorino scassato. Almeno, ho questo vago ricordo, e anche non fosse vero così si è sedimentato nella mia memoria.
Il giornalismo di provincia è forse l’unico giornalismo rimasto, perché parli delle cose che vedi, delle cose che sai, delle persone che conosci. Non puoi sgarrare. Non puoi soprassedere. Non puoi far finta di nulla. Ogni storia di cui scrivi ha un inizio e spesso una fine, non importa quante cose ci siano nel mezzo, ma tu nei sei il cantore definitivo. E quanto più il tuo racconto è veritiero, equilibrato, per quanto possibile obiettivo, tanto più la comunità che vi si rispecchia dentro ha la possibilità di crescere in modo civile e democratico. In questo senso, il giornalismo di provincia è “storia” nel senso più vero dell’etimo: cioè il racconto delle “cose viste”, il racconto che solo il testimone può fare in modo umile e diretto.
Dire solo le cose che “ho visto” è dunque il modo migliore, forse l’unico, di fare giornalismo e al contempo di fare “storia”. Non a caso di tutti i generi, il reportage, è quello che ha contribuito – prima della deriva digitale e social – a fare di una professione una vocazione, nella quale l’epos si mischiava alla cronaca. Con questo sentimento, Pascarella ha lasciato temporaneamente la pista consueta, per raggiungere l’Afghanistan portando con sé l’armamentario affilato e testato durante tutti questi anni di lavoro: precisione nella scrittura, desiderio di mostrare anche le cose meno eclatanti, pietas nella descrizione. Ne è uscito un libro pregevole – corredato da un intenso apparato di immagini, frutto dell’occhio del fotografo Davide Caforio che ha seguito l’impresa – in cui si racconta un Paese devastato da secolari guerre e millenarie dominazioni, in cui si radicano in contrasti più forti tra una modernità laica mai accettata e una tradizione religiosa integralista.
Sullo sfondo di un territorio aspro e montano, due volte l’Italia, poco coltivabile, poco urbanizzato, dove i giovani sotto i 24 anni sono il 60 per cento della popolazione, prendono corpo volti e storie di rara intensità raccontati con la semplicità del cronista: le maestre e le bambine velate della Pol-e Ranginah High School a sud-est di Herat; i soldati italiani del Prt (il team della ricostruzione) e quelli della caserna Ugo Mara di Solbiate; le conduttrici di Shamshad Tv; la serenità di padre Giuseppe Moretti (l’unico sacerdote cristiano in Afghanistan); e poi il volto di Abdul Hadi che gestisce uno shop di prodotti fake e che i militari hanno soprannominato big paraculo; oppure la novità rappresentata da Rula, la moglie del nuovo presidente Ashraf Ghani Ahmadzai, una donna di origine libanese, attiva nel campo della difesa dei diritti umani, e dai cui forse può partire la ricostruzione.
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> Silvestro Pascarella
La rivoluzione della verità Un viaggio nell’Afghanistan di oggi
con le fotografe di Davide Caforio e la prefazione di Greta Ramelli
Edizioni dEste 2015
[…] qui la versione integrale dell’articolo […]
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