Era l’11 marzo del 1913 quando Luigi Russolo, pittore e musicista, si consegnava a una piccola grande pagina della storia della musica: compie 103 anni, infatti, il suo trattato di musica futurista L’arte dei rumori. Il manifesto di Russolo, pressoché dimenticato per la sua “non conformità”, fu, al contrario, una delle opere più rivoluzionarie e lungimiranti della musicologia del Novecento: dall’assunto di base marinettiano – la musica deve essere composta dal rumore e dalle macchine – le idee pioneristiche di Russolo, sempre appoggiate dallo stesso Marinetti, sono state alla base di gran parte delle sperimentazioni successive. A rileggere quelle pagine, dopo mezzo secolo di avanguardie, si rimane impressionati dall’analisi futurista. Ma cosa capì Russolo di così innovativo? Innanzitutto, il discrimine cronologico: «Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine, nacque il Rumore. Oggi, il Rumore trionfa e domina sovrano sulla sensibilità degli uomini. […] Il suono fu dai popoli primitivi attribuito agli dei, considerato come sacro e riservato ai sacerdoti, che se ne servirono per arricchire di mistero i loro riti. Nacque così la concezione di suono come cosa a sé, diversa e indipendente dalla vita, e ne risultò la musica, mondo fantastico sovrapposto al reale, mondo inviolabile e sacro».
Con la fine dell’Ottocento, però, portando all’esasperazione il tardoromanticismo, la composizione musicale diventa più disarmonica: «Oggi l’arte musicale, complicandosi sempre più, ricerca gli amalgami di suoni più dissonanti, più strani e più aspri per l’orecchio. Ci avviciniamo sempre più al suono rumore. Questa evoluzione della musica è parallela al moltiplicarsi delle macchine». Fondamentale, in questa prospettiva futurista, è un’osservazione sociologica: «Questa evoluzione verso il “suono rumore” non era possibile prima d’ora. L’orecchio di un uomo del settecento non avrebbe potuto sopportare l’intensità disarmonica di certi accordi […]. Il nostro orecchio invece se ne compiace, poiché fu già educato alla vita moderna, così prodiga di rumori svariati».
La critica al classicismo è, in Russolo, spietata: «Entriamo insieme, da futuristi, in uno di questi ospedali di suoni anemici. Ecco: la prima battuta vi reca subito all’orecchio la noia del già udito e vi fa pregustare la noia della battuta che seguirà. […] Via! Usciamo, poiché non potremmo a lungo frenare in noi il desiderio di creare finalmente una nuova realtà musicale».
Una «nuova realtà musicale» composta di “nuovi suoni-rumore” elencati da Russolo stesso: rombi, tuoni, scoppi, boati, fischi, tonfi, borbottii, brusii, stridori, scricchiolii, fruscii, ronzii, percussioni su metalli, legni, pelli, pietre, voci animali e di uomini, gridi, strilli, gemiti, urla, ululati, risate, rantoli, singhiozzi. Un universo di “suono-rumore” per la cui produzione, Russolo inventò addirittura due macchine: l’intonarumori e il rumorarmonio.
La lungimiranza. Per comprendere la portata rivoluzionaria de L’arte dei rumori si legga John Cage, icona delle avanguardie degli anni Sessanta: «Dovunque ci troviamo, ciò che sentiamo è principalmente rumore. Quando lo ignoriamo, ci disturba. Quando lo ascoltiamo, lo troviamo affascinante». E se Russolo inventò l’intonarumori, Cage inventò il “pianoforte preparato”: un pianoforte con viti, bulloni, tappi, stringhe, vetri tra le corde per distorcerne il suono e trasformarlo in rumore.
Sono ancora molti, oggi, i detrattori di Russolo. E sono gli stessi, magari, che esaltano (giustamente) Cage.