Dal 19 settembre al 3 ottobre 2025, l’Ex Studio Piero Manzoni di Via Fiori Chiari 16, nel cuore di Brera, ospita la mostra personale di Oriella Montin dal titolo L’importanza dei luoghi – Lo spazio della creazione.
Il progetto espositivo si concentra sullo studio d’artista come luogo privilegiato di elaborazione e sperimentazione. L’atelier, inteso quale spazio di concentrazione e trasformazione, diventa veicolo di un processo creativo in cui interiorità e contesto esterno si intrecciano.
L’evento si inserisce in un contesto di particolare rilievo storico: nel 1962 Piero Manzoni, protagonista indiscusso dell’avanguardia internazionale, scelse proprio questo spazio come sede del proprio lavoro, realizzando qui le sue ultime opere prima della prematura scomparsa. Negli anni successivi, lo studio ha continuato a stratificare memorie e testimonianze artistiche, fino a trasformarsi in sede museale ed espositiva.
All’interno di questo scenario, le opere di Oriella Montin instaurano un dialogo diretto con lo spazio e la sua memoria. Fotografie d’archivio, tracce grafiche e materiali tessuti con pazienza e rigore compongono una trama di “dediche”: lavori che evocano presenze anonime e dimenticate, traducendo il passato in una sensibilità contemporanea.
La mostra offre così al pubblico un percorso che unisce riflessione storica e ricerca artistica, invitando ad approfondire il significato dello spazio creativo come luogo di relazione, memoria e trasformazione.
ORIELLA MONTIN
L’importanza dei luoghi – Lo spazio della creazione
Ex Studio Piero Manzoni, Via Fiori Chiari 16, Milano
19 settembre – 3 ottobre 2025
Orari di apertura: dal lunedì al venerdì, ore 15.00 – 19.00
L’IMPORTANZA DEI LUOGHI – LO SPAZIO DELLA CREAZIONE
L’atelier, lo studio dell’artista, il suo laboratorio, si configurano come spazi di vita, e costituiscono anche il luogo della riflessione, dell’elaborazione e della realizzazione di un progetto che ha il potere di oltrepassare la dimensione quotidiana; rappresentano il luogo della creazione. Uno spazio complesso, per certi versi inaccessibile, in grado di esprimere contestualmente il rapporto tra l’interiorità dell’artista e l’esteriorità del contesto nel quale lo stesso vive e opera, una relazione intimamente connaturata al lavoro creativo. Ma lo studio dell’artista, l’atelier, è anche il tramite tra la mente e il corpo dell’autore, nella sua possibile estensione spaziale, e proiezione, attraverso gli oggetti che vi sono raccolti e contenuti e soprattutto attraverso ciò che vi viene concepito. Luogo fisico che racconta una condizione mentale, spesso di isolamento, di sottrazione dal mondo esterno. L’ambiente dello studio permette un passaggio utile, se non indispensabile, per introdursi in una serie di dinamiche, che consentono all’immaginazione di esprimere l’azione creativa. Lo spazio sembra prolungare l’azione del corpo dell’artista; si attua una sorta di espansione nelle cose; le tele, i colori, il cavalletto, la scrivania, l’ordine rigoroso o il caos dell’accumulo, rispecchiano l’idea della trasformazione, ricreano un ambiente in grado di assicurare la concentrazione necessaria alla manifestazione del cambiamento. Marguerite Duras aveva dichiarato: “Tuttoscriveva nellacasaquandoscrivevo.Lascritturaeraovunque”, sottolineando come l’identità dell’ambiente destinato alla creazione più spesso assuma piuttosto il confine di uno spazio esclusivo, impenetrabile. […] Dagli inizi del Novecento l’atelier registra un nuovo cambiamento, dato che il campo d’indagine e d’azione degli artisti si dilata oltre la tela. Il quadro non è più l’unico supporto espressivo, i pigmenti non costituiscono più la sola tecnica referenziale. Le ricerche si indirizzano verso la sperimentazione spaziale e cromatica; il luogo di queste indagini diviene simile al laboratorio di un alchimista; i materiali più svariati affollano lo studio degli artisti e in molti casi le ricerche si estendono fino a coinvolgere e a inglobare l’ambiente stesso di lavoro.
(estratto da: Chiara Fagone, Geografiadiuninterno–luoghidell’abitareericercaartistica tramemoriaesperimentazione, Milieu Edizioni, 2018).
Nel 1962 Piero Manzoni, protagonista della ricerca artistica tra i più noti e irriverenti della scena internazionale, si trasferisce a lavorare nello studio di via Fiori Chiari 16, a due passi dall’Accademia di Brera e dal celebre ‘Bar Giamaica’, luogo di ritrovo per molti autori della sua generazione. Manzoni, che nel 1960 aveva dichiarato: “Non c’è nulla da dire; c’è solo da essere, c’è solo da vivere”, qui realizza gli ultimi lavori e sempre qui muore, il 6 febbraio 1963, a ventinove anni. Le pareti di questo luogo continueranno a raccogliere e stratificare ricerche ed eventi, ricordi e memorabilia del baritono Giuseppe Zecchillo, cantante lirico del Teatro alla Scala, trasformandosi in una sede museale e insieme espositiva.
In questo contesto le opere di Oriella Montin dialogano tra loro e nello spazio denso di memorie raccontano storie, addensano profili anonimi persi nel passato di vecchie immagini fotografiche, e grafie, e materie legate, intessute dall’operatività paziente e rigorosa dell’artista, a formulare delle ‘dediche’. Una trama di connessioni creative, tra il passato e una personale sensibilità per il presente.
Chiara Fagone