I muri stuccati e segnati dal colore: Paolo Mologni

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Presso la Biblioteca di Città Studi a Biella è in corso la mostra originale, curata da Walter Ruffatto,  di uno degli artisti più all’avanguardia, Paolo Mologni (1973) vive e lavora a Biella.  In principio fu la parete, il muro, il luogo dove l’uomo-non ancora uomo del paleolitico compì il passo nodale per affermare sé stesso. Incidere il muro, compiere il primo segno, rivolgersi ad un suo simile, comunicare in modo permanente.

Nei lavori di Paolo Mologni, riconosciamo la linea di quel muro, che ha attraversato millenni e forme espressive, per ripresentarsi oggi purgato delle innumerevoli stratificazioni della cultura e del senso comune, per arrivare a noi nel punto più vicino possibile alla pulizia e alla purezza del gesto.  I muri stuccati e segnati dal colore di Mologni, sono l’incastro precario ma semplicemente resistente tra una sintesi di tutti muri segnati dal gesto artistico prima di questi e il candore del primo, intonso, quasi ancora dovesse asciugare la calce. Nel progetto che prevede l’incontro tra arte, letteratura e cinema: le opere esposte, infatti, vengono abbinate a una selezione di libri e film. «Le mura sospese» presenta otto opere su tela orientate al minimalismo materico, che evoca riferimenti eccellenti come Mark Rothko, Yves Klein e i décollage di Mimmo Rotella. 

Già  Hal Foster aveva individuato sin dal 1983 le coordinate critiche e culturali in cui si sarebbero inscritti nei decenni a venire i bilanci negativi delle tendenze neoespressioniste. Foster identificava con grande precisione un post-structuralist postmodernism – un postmodernismo “di resistenza” che attacca da sinistra l’istituzione-arte, la “tradizione del nuovo” e la paradossale vittoria postuma di un’avanguardia ormai consegnata alla dimensione del museo, ovvero ridotta a riserva di citazioni – e un neoconservative postmodernism, reazionario e formalista, che predica il ritorno alla narrazione, all’ornamento, alla rappresentazione nonché alla Storia e al soggetto-autore, il primo da identificare grosso modo con gli artisti della Pictures generation americana (Cindy Sherman o Richard Prince, ad esempio) – manipolatori di segni e non produttori di oggetti estetici la cui pratica creativa è vista come snodo di una rete di relazioni discorsive privo del privilegio tipicamente moderno dell’eteronomia –, il secondo col neoespressionismo di matrice europea, dove l’accumulo di frammenti iconografici, di scorie narrative e allegoriche mimerebbe inconsapevolmente, questa è in sostanza l’imputazione decisiva, l’inflazione visiva della società neocapitalista, non si opporrebbe alla dilapidazione dei significati che essa genera ma anzi ne sarebbe un suo complice attivo

Sono sottrazioni, raschi, graffi, decollage impavidi che cercano una geometria di risulta dalle tante voci che su quel muro si sono avvicendate oppure aggiunte, strati e ricomposizione di una tavola muraria ancora intatta? Vi è di che perdersi ad osservare per qualche minuto i muri sintetizzati di Mologni; ad un certo punto dell’osservazione ciascuno spettatore comincerà a percepire, dentro di sé un suono; meglio, una frequenza continua.

E’ il drone, elemento minimale della musica elettronica contemporanea. Affiancati e riprodotti, il minimalismo sonoro e quello estetico, evocano la lezione fondante dell’architetto Mies van der Rohe: “Less is more” (1947).

Dal 7 al 31 gennaio 8.30-19.00 sabato 8.30-12.30 , ingresso gratuito