Il maestro dell’erotismo si racconta tra cinema, libertà, provocazioni e un episodio inedito da Parigi. In mostra a Brescia oltre cento scatti che ripercorrono la sua vita e il suo sguardo unico.
A Brescia, negli spazi della Cavallerizza, è in corso fino al 7 settembre la mostra Tanto di Tinto. L’erotismo secondo Brass: oltre cento fotografie di Gianfranco Salis raccontano un regista che ha fatto della libertà la sua cifra, mescolando gioco e rigore, ironia e sensualità. Tinto Brass non è solo il cineasta dell’erotismo: è un autore colto, un innovatore del linguaggio, un uomo che ha saputo guardare il corpo femminile come soggetto e non come oggetto. Con lui, tra memoria e presente, abbiamo parlato di cinema, di libertà e di episodi mai raccontati.

Maestro, che effetto Le fa vedere oggi la sua vita e i suoi film raccontati attraverso fotografie e non sul grande schermo?
Una curiosa sensazione… Il cinema, per me, è sempre stato movimento. Uno scatto fissa un momento: qualcosa resta, sì, ma qualcosa si perde. Resta il segno, l’intuizione – ma manca l’azione, il compiersi delle cose nel tempo del vedere.
Mi inorgoglisce che sia Caterina, mia moglie, a occuparsi oggi del mio archivio e della mia opera. Lei ha capito il senso profondo del mio cinema — forse perché, come spesso dice, era intimamente brassiana prima ancora di conoscermi. Insieme stiamo lavorando per adattare in romanzo una sceneggiatura scritta negli anni ’70, che uscirà questo autunno: DNA. La storia di T., con la casa editrice Milieu, nella collana dedicata a quegli anni. Avevo girato molte scene con Vanessa Redgrave, Franco Nero e Gigi Proietti, ma il progetto fu interrotto per mancanza di fondi economici, quando la pellicola terminò.
Lei è stato spesso definito “il regista dell’erotismo”. Ma se potesse scegliere un’unica parola per definirsi, quale userebbe?
Mi definirei un libertino, ma intendo questo termine in senso ampio, non nella sua accezione riduttiva. Ma come una filosofia di vita che precede la mia estetica. Ho sempre avversato e rifiutato ciò che è imposto dall’esterno. La mia ricerca non è mai stata quella di una verità monolitica e assoluta, ma piuttosto l’esplorazione di una visione del mondo fondata sull’emancipazione del corpo e sulla libertà incondizionata del pensiero. Non ho mai accettato compromessi. Ho pagato il prezzo della censura e dell’emarginazione, ma non mi sono mai piegato a nessun tipo di potere. Continuo a credere fermamente che l’erotismo rappresenti una forma di conoscenza elevata, profonda e, a mio avviso, indispensabile.
Guardando i registi di oggi, vede qualcuno che ha il coraggio e la libertà che Lei ha sempre messo nei Suoi film?
No. Quella ribellione e quella sperimentazione del linguaggio che hanno infiammato il mio percorso, oggi sono sempre più rare. Vedo troppa prudenza, troppe autocensure, troppa correttezza.
Ci racconti un episodio “OFF”, curioso, assurdo o imbarazzante che Le è capitato nella Sua carriera — sul set, a un festival o nella vita privata — e che non ha mai raccontato a nessuno.
Uno degli episodi più imbarazzanti mi è capitato in un locale di scambisti a Parigi. Ero preso in una situazione orgiastica, di grande eccitazione collettiva. A un certo punto, con naturalezza, ho messo la mano davanti, immaginando un morbido cespuglietto femminile. In quell’istante ho scoperto che si trattava di un uomo. Le mie preferenze erotiche sono abbastanza note — ma quella sera non mi sono ritratto. Ho proseguito, lasciandomi guidare più dall’eccitazione che dalla sorpresa e dall’imbarazzo. Nei Paesi asiatici, mi considerano un’icona per la comunità omosessuale.
Anni fa, durante una bellissima serata organizzata a Torino da Nanni Moretti per la proiezione di Chi lavora è perduto, lui mi disse — ricordandolo — che “la Storia ha la mannaia pesante.”
Anche essere percepito come un’icona della libertà omosessuale ha un suo motivo. Un riconoscimento che vale più di mille premi. Io non faccio distinzione di genere: conta solo il desiderio, la sua potenza, la sua sincerità.
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