Ecco l’artista che ha imparato più in cucina che in Accademia.
di Angelo Crespi
Alex Folla sembra un nickname ed è invece il nome vero di Alexandru Folla (madre rumena e padre valtellinese) nato nel 1980 a Oggiono, un piccolo paese dell’Alta Brianza. Alex vive tra Milano e Filorera, frazione di Val Masino in provincia di Sondrio, località amena con 900 abitanti, a pochi passi dal Sasso di Remenno uno dei luoghi sacri del free climbing italiano. Piuttosto che dedicarsi all’arrampicata, tra corde e chiodi, ha preferito colori e pennelli, diplomandosi all’Accademia di Brera e specializzandosi poi a Carrara con Omar Galliani e Aron Demetz.
Toscano per lavoro, collabora dal 2010 con la galleria Gestald di Pietrasanta e dal 2012 con la galleria Gagliardi di San Gimignano, è russo per matrimonio e in febbraio esordirà in piazza Rossa a Mosca, con una personale alla Triumph Gallery dove esporrà tredici pezzi riguardanti il tema dei santi rivisto in chiave contemporanea.
La sua pittura ha il sapore antico dei grandi maestri seicenteschi (i rossi di Caravaggio), ma Alex ci tiene a sottolineare che “odora di cipolla e salsiccia” perché imparata da solo in cucina più che nelle aule dell’accademia italiana dove la figurazione spesso è bandita in favore dell’informale e del concettuale, mentre lui non disdegna neppure l’affresco alla maniera di Michelangelo. “Nel mio lavoro – spiega – è fondamentale la differenza tra realismo fotografico e realismo pittorico. Il primo riproduce ciò che la macchina fotografica ha ripreso, il secondo, quello a cui tendo, riproduce ciò che è necessario. Il resto viene suggerito all’occhio che ingannato lo visualizza. Un esempio concreto è dipingere in un viso solo la parte illuminata e lasciare che sia l’occhio a ricostruire la parte in ombra che non c’è”.
Così nelle sue varie agiografie, suggestive tele preparate a bitume, la storia dei santi viene rivista in chiave moderna, pur nella tradizione plastica dei corpi a tratti ripresi con violento realismo nella loro fragilità e vecchiezza, corpi che prefigurano “le falene” di una sua altrettanto recente serie dedicata a nudi colti nel loro disfacimento. L’iconografia del Sant’Antonio, tormentato per anni da visioni mistiche, è modernizzata in chiave psicologia: il demone proietta un’ombra sulla mente del santo e ne appanna i sensi e la coscienza per meglio tentarlo con una rapida farfalla, simbolo montaliano di bellezza e voluttà, che gli sovrasta il capo.












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