Lucio Corsi, che per anni ha creato musica di qualità senza ricevere l’attenzione che meritava, è la prova che il panorama musicale italiano è spesso ostacolato dal monopolio mediatico.
Lucio Corsi – a Sanremo 2025 ha vinto Olly davanti a Lucio Corsi e Brunori Sas, n.d.r. – è la dimostrazione che, in un sistema dove la musica è dominata dai numeri, il talento può facilmente rimanere nascosto.
Questo artista straordinario, che per anni ha creato musica di qualità senza ricevere l’attenzione che meritava, è la prova che il panorama musicale italiano è spesso ostacolato dal monopolio mediatico.
Per troppo tempo, la visione autentica di Corsi non è rientrata nei trend preconfezionati delle radio e delle TV generaliste, lasciandolo nell’ombra.
La responsabilità di questa marginalizzazione non è solo dei media tradizionali. Le piattaforme di streaming, come Spotify, hanno contribuito a spingere una scena musicale sterile e poco qualitativa, basata esclusivamente sui numeri. Le playlist algoritmiche e le strategie di marketing, purtroppo, premiano contenuti mordi e fuggi, penalizzando artisti con una visione più originale e personale.
A peggiorare le cose, i direttori artistici delle radio, ormai impigriti dalla scusa di ricevere migliaia di proposte ogni giorno, hanno smesso di ascoltare ciò che non proviene dalle classifiche di streaming. I numeri, piuttosto che il valore artistico, decidono chi merita di essere ascoltato. Così facendo, si è perso il coraggio di fare scelte indipendenti, dando spazio solo a ciò che segue le mode del momento, e ignorando chi non rientra in questi schemi.
Nel frattempo, il panorama musicale si è riempito di fenomeni da baraccone: spettacoli che offuscano il talento con ostentazioni vuote di vestiti e gioielli, alimentate dai numeri dei social media, dai dissing falsi e dai pettegolezzi che hanno sostituito la musica con la superficialità. Un circo mediatico in cui il talento genuino viene soffocato dalle strategie costruite a tavolino.
I talent show, inoltre, hanno contribuito a creare una filiera di “artisti senza cognome”, privi di un’identità musicale solida e autentica. Spesso, la loro carriera si basa più sull’aspetto fisico o sui drammi personali che raccontano, piuttosto che su una proposta artistica reale e significativa. Questo fenomeno ha alimentato una cultura musicale in cui la forma prevale sostanzialmente sulla sostanza.
Il risultato di queste dinamiche è un impoverimento generale del settore. Gli artisti, come i professionisti del mondo musicale, hanno visto abbassarsi il loro profilo, e l’effetto a catena ha avuto un impatto anche sul piano economico. Le piattaforme di streaming, che pagano pochissimo per ogni singolo ascolto, non sono più in grado di sostenere economicamente la musica, lasciando che tutto dipenda ormai da sponsor e concerti massivi. Il percorso artistico si è ridotto a un salto diretto dallo studio a San Siro, senza che ci siano più spazi intermedi che permettano una crescita autentica.
Le testate giornalistiche, a loro volta, hanno perso una figura fondamentale: quella dei critici musicali e degli scout che, un tempo, erano in grado di supportare una scena musicale viva e innovativa. Oggi, i critici si rifiutano di recensire album che non abbiano un supporto fisico, ignorando che il CD è ormai praticamente scomparso. Questo atteggiamento conservatore sta allontanando ancora di più la musica da un pubblico attento e da un’industria pronta a premiare il vero talento.
E infine, la realtà di Sanremo ci mostra come la musica, ormai, venga scritta da pochissimi autori che da anni si spartiscono la torta tra loro e i loro editori. Questo ha portato alla creazione di brani che sembrano tutti uguali, privi di quella creatività che, una volta, caratterizzava quel palco e che ora è soffocata dalla ripetizione delle stesse formule.
C’è da chiedersi: come mai la RAI, la televisione pubblica pagata con i soldi dei contribuenti, non ha ancora un programma che promuova artisti italiani di talento? Invece di sostenere la cultura musicale, la RAI continua a trasmettere programmi di intrattenimento come The Voice e altri format che non fanno altro che perpetuare il vuoto musicale. Una vera occasione persa per offrire visibilità a chi merita, in favore di programmi che non arricchiscono la scena musicale, ma ne svuotano il valore.
Eppure, c’è un esempio che possiamo guardare con attenzione: la Corea del Sud. Sì, puntare sulla cultura può davvero convenire, e lo dimostra proprio l’esempio coreano. La cultura, quando è promossa e gestita strategicamente, può diventare un potente motore di crescita economica, oltre che di soft power e influenza internazionale. La Corea ha saputo trasformare la cultura in un elemento centrale della sua politica estera e del suo sviluppo economico, utilizzando l’industria culturale come risorsa per aprire mercati globali, attrarre turisti, investitori e talenti. La musica, il cinema e la moda sono diventati motori fondamentali per la crescita del paese, conferendo a quest’ultimo una visibilità internazionale che va ben oltre le sue frontiere. È un modello che l’Italia, con tutta la sua ricchezza culturale, dovrebbe prendere in considerazione, per dare alla musica e agli artisti italiani le opportunità che meritano.
Se c’è un messaggio che dobbiamo portare con noi, è che la diversità musicale e la qualità artistica devono tornare al centro del nostro panorama culturale. E per farlo, è necessario che tutti – dai media agli artisti, dai professionisti ai pubblici – si impegnino a rinnovare il nostro approccio alla musica, sostenendo chi ha davvero qualcosa di nuovo e significativo da dire