«C’è una riflessione che mi porto dento da tempo e ha a che fare con la teoria che Darwin ha esplicitato in un trattato di etologia. Charles Darwin definì il rossore come “la più peculiare e umana tra tutte le espressioni emotive”. In effetti, arrossire è una reazione esclusiva degli esseri umani, un comportamento strettamente legato ad alcune emozioni, in particolare all’imbarazzo, quando ci si sente giudicati».
E proprio come gli ibis scarlatti di cartapesta di Alice Zanin che ci guardano perplessi sospesi con fili trasparenti, pronti a spiccare il volo a Torino tra le arcate nel cortile di Palazzo Biandrate Aldobrandino di San Giorgio sede del Museo Archivio Reale Mutua, anche noi umani dovremmo diventare un po’ tutti rossi, ma di vergogna, per come stiamo maltrattando il pianeta terra.
Questo e molte altre riflessioni evoca l’installazione site specific dal titolo Rouages ideata da Alice Zanin, tra le giovani scultrici italiane più apprezzate, per la X edizione di Art Site Fest, la rassegna torinese che mette in dialogo arte, storia e natura (fino al 26 novembre).
Il tocco poetico e straniante dell’artista piacentina (nata nel 1987) brilla di leggerezza e di incanto poetico. Le sue sculture fiabesche di cartapesta smascherano con eleganza e delicatezza l’arroganza dell’uomo contemporaneo, che dal secolo scorso ha violato un patto di rispetto e di armonia con la Natura. Il suo stile personalissimo è ormai riconoscibile. Nel nostro immaginario (visivo e simbolico) sempre più compromesso dall’eccesso ipertecnologico della nostra epoca, si presentifica l’epifania dell’universo ineffabile e ammaliante dell’artista piacentina , popolato da animali strani, favolosamente irreali, poeticamente perplessi. Sinuosi dragoni marini, lumache di mare, uccelli del paradiso, elefanti grigio-verdi e rinoceronti azzurri, levrieri persiani dalle zampe e colli finemente allungati, esili gru, misteriosi cavallucci di mare, appesi a sottili fili di nylon o montate in teatrini dell’assurdo sigillati in teche di plexiglass. Una zoologia fantastica di cartapesta, in bilico tra reale e simbolico, con profondissima leggerezza ed eleganza, sia nelle sculture di grandi dimensioni sia in quelle di proporzioni minute, con una ricchezza infinita e variegata di rimandi culturali (alla letteratura, alla filosofia, alla scienza) facendo propria la lezione di leggerezza di Italo Calvino e quella di Paul Valéry. Planare sulle cose dall’alto, senza macigni sul cuore («non sempre ci si riesce», ammette Zanin).
E volteggiando come una libellula (lo vedremo tra poco), in bilico tra gioco e confessione, Alice Zanin si racconta così in questa intervista. Con ironia. Ce n’è sempre un pizzico nelle sue parole. Come, del resto, nei suoi lavori. L’ironia, quando è lieve, fine, sottile, arguta, chiosa l’artista piacentina, è una presa di distanza salvifica che ci permette di osservare e riflettere sulla realtà circostante con sorridente distacco.

Partiamo dal titolo dell’installazione. Rouages.
In francese significa “ingranaggi” ma è anche un gioco di parole nato dall’unione di rouge (rosso) e nuages (nuvole). Sui titoli mi diverto molto e fanno parte del gioco dell’interpretazione. Mi piace l’idea di lasciare lo spettatore perplesso.
Vuoi dire che ti diverti a depistare?
Un testo che accompagna un’immagine è una necessaria precisazione del significato o piuttosto un’interpretazione limitativa? Un dibattito ormai superato. Non c’è una risposta univoca. Non sempre l’interpretazione è fornita dall’opera o dal titolo, e forse proprio non vuole esserci. Tanto è vero che molti artisti preferiscono non titolare le loro opere. Le immagini e il testo sono talvolta legati da relazioni stabili di ancoraggio. Ma queste relazioni possono anche essere volutamente incongrue, divergenti e creano un luogo ulteriore di senso che agisce accanto, o anche in conflitto, con l’immagine, in grado di esprimere un nuovo significato che non contenevano separatamente. Procedendo in questa direzione potrei allora forse dire che mi diverto a creare un gioco interpretativo. Perché alla fine il significato di un’immagine è sempre un processo di negoziazione tra le intenzioni dell’autore, il suo contesto di presentazione e l’immaginazione di chi guarda.
Le nuvole evocano immagini fluttuanti e cangianti, che incatenano lo sguardo.
Le nuvole mi affascinano. Restano sospese. Passano sopra la nostra testa. Le vediamo in cielo muoversi, spostarsi, cambiare forma, in modo imprevedibile, fantasiose. Sono capaci di suggerirci figure immaginifiche e inusuali, ora sembrano un drago, ora un carro, ora il viso della nonna. E tu ti senti piccolina nel guardare la “straziante bellezza del creato”, come dice Totò a Ninetto Davoli davanti all’apparizione delle nuvole nell’ultima scena del film di Pier Paolo Pasolini, Che cosa sono le nuvole?. E’ una trasposizione dell’Otello di Shakespeare, recitata da un gruppo di marionette. Nella scena finale il monnezzaro porta fuori dal teatro, le due marionette Totò (Jago) e Ninetto Davoli (Otello) e le getta cantando in una discarica a cielo aperto. E semisepolti dai rifiuti scoprono le nuvole.
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Pasolini come Calvino è un tuo punto di riferimento alto. Penso alla tua mostra bolognese Uccellacci e uccellini del 2018. Oltre trenta sculture di uccelli di varie specie raccontano con surreale leggerezza e tocco poetico, spaziando dalla scienza alla storia, dal mito alla religione, un mondo, e non solo quello dell’ornitologia, fatto di “oppressi ed oppressori”.
In tutte le mie opere c’è una costante ed è quella di risvegliare nell’uomo, che si fa spettatore, la sua vicinanza alla Natura. E di far riflettere sull’ imbarbarimento della modernità industrializzata con note ironiche. Prima fonte di ispirazione è stato proprio il film di Pasolini, un’amara e surreale allegoria fiabesca molto semplice: uomo schiaccia uomo. Pasolini ha visto l’involuzione della società italiana, la mutazione antropologica durante il cosiddetto boom consumistico, dove la tragedia è “che non ci sono più esseri umani, ci sono strane macchine che sbattono l’una contro l’altra”. Siamo uccellacci o uccellini? A chi avesse dei dubbi, i comportamenti discutibili dell’uomo sedicente civile su questo pianeta che ci ospita offrono risposte.
ll sogno perduto dell’armonia tra uomo e natura, come un’eco rimane sempre in sottofondo nel tuo mondo fiabesco. Come la nostalgia dell’infanzia.
Le fiabe non sono solo per i bambini. Le favole sono anche per gli adulti. Un racconto su tutti, Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry. E’ un “trattato” sull’importanza del legame nelle relazioni umane. Dare un valore al legame vuol dire prendersi cura del legame, dedicandogli tempo e attenzioni. Lo stesso vale per la questione ambientale, sempre più centrale per il futuro del pianeta. E l’arte come risponde alla chiamata? Qui si apre un discorso sterminato. Quanto tempo hai per l’intervista?
Autodidatta per formazione, sperimenti diversi mezzi espressivi fra cui anche la pittura, fino a scegliere di concentrarti sulla cartapesta di giornale o colorata in modo vivace, in maniera del tutto originale. Che cosa ti affascina di questo materiale?
Per me la carta è materia viva, vibrante, mutevole, malleabile, flessibile e assume volume, corpo e plasticità pur non privandosi della propria fragilità. In fondo, proprio la sua leggerezza materiale mi consente di realizzare delle sculture anche di grandi dimensioni. E riesce nel risultato strabiliante di regalare loro il movimento senza l’ausilio di meccanizzazione. La spinta iniziale a lavorare con questo elemento arrivò però in modo del tutto casuale ma, si sa, il caso non esiste
Come è nato l’incontro con la cartapesta?
All’inizio lavoravo la terracotta. Per circa cinque anni ho realizzato figure umane, erano bianche e molto allungate. Invitata a partecipare a una mostra, mi serviva realizzare un’opera (si trattava di un cavallo) molto grande e in poco tempo. È stato così che ho pensato all’anima in ferro zincato da ricoprire con la carta. Quando ho visto il lavoro finito, il risultato estetico mi è piaciuto moltissimo. Esistono però due tipi di cartapesta: papier-mâché (carta masticata, pestata) e papier-collé (carta incollata). Quest’ultima è più simile alla tecnica che utilizzo, ha origini antichissime, le prime tracce della lavorazione della carta ci portano in Cina, nel II secolo a.C. e prevede che la carta non sia ridotta in pezzi e pestata, ma sovrapposta in fogli alternati a strati di colla. L’amalgama può essere lavorata: limata, levigata, laccato, dipinta.
Il tuo bestiario onirico e fiabesco racchiuso nelle teche di plexiglass a un certo punto ha incominciato a prendere il volo. Un tratto stilistico del tuo lavoro in questi ultimi anni è sicuramente la “leggerezza del volo”. Da cosa nasce?
Per andare a fondo alla tua domanda, forse dovrei sondare il mio inconscio con l’aiuto di uno psicoanalista (ride).
Sognare di volare, facendo della psicologia spiccia, simboleggia un desiderio di libertà, staccarsi dalla realtà quotidiana, di elevarsi, osservando le cose dall’alto.
La leggerezza è planare le cose dall’alto senza avere macigni sul cuore, diceva Italo Calvino, un autore a cui mi sento più vicina che ad altri, per l’attitudine fiabesca ed ironica nel trattare temi “esistenzialisti” e legati alle più variegate realtà del mondo. La leggerezza per me è una ricerca continua, quella leggerezza che nella vita quotidiana non sempre riesco a trovare. Il mondo reale può essere una gigantesca gabbia per uccelli, possiamo però aprirla, e scoprire con l’immaginazione altri mondi immaginari. Così come gli aquiloni e gli uccelli anche la nostra anima vuole spiccare il volo verso mete più alte. Riconciliarsi con la serenità della natura e fantasticare una primordiale purezza. E come il cavaliere inesistente di Calvino, dall’armatura vuota mossa solo dalla forza di volontà, a volerci ben pensare anche tutti i miei animali sono proprio armature di ferro e carta, che avvolgono una porzione di niente, che fino a prima della loro realizzazione era invisibile, e tale resta all’interno dell’involucro, ma insieme alla mia volontà di farli esistere. Si tratta dunque di una leggerezza, quella della cartapesta, che non è solo materica ed estetica, ma esistenziale.
Ad Art Site Fest al Castello di Moasca un elegante levriero si lancia in un balzo…

La scelta è ricaduta su questo animale perché all’interno degli appuntamenti del Festival c’erano delle letture dell’ultima edizione proprio del Premio Calvino. Mi sono così ispirata ai Tre cani, un racconto nelle Fiabe italiane di Calvino. Per amor di precisione si tratta di un Saluki: è il levriero persiano, la più antica fra le razze canine conosciute, veniva usato per la caccia con il cavallo arabo e il falcone. L’uccello individua la preda dall’alto, indicando all’animale dove andare per catturarla. Vivo in campagna, a Podenzano e per molti anni ne ho avuto due di Saluki, Mauve (“malva”, adoro il francese) e Nabis, che non c’è più.
Con quale animale ti identifichi?
La libellula, che ho scarsissimamente rappresentato nei miei lavori per una forma di imbarazzo. Tanti anni fa Luiso Sturla, un caposcuola dell’informale, mi aveva scritto una dedica sul frontespizio del catalogo della sua mostra chiamandomi per l’appunto libellula. E questo soprannome mi è rimasto appiccicato addosso come un tatuaggio. Piccola e leggera, sospesa nell’aria ma con le ali in perenne impercettibile movimento, acquatica e terreste, esemplifica già nel nome quell’equilibrio che sento mancare sempre e che mi piacerebbe avere.
Su cosa stai lavorando?
Una scultura con le megattere. Sono delle balenottere dalle grandi pinne pettorali che assomigliano ad ali. Parlano, o meglio cantano, in continuazione. Per ora ci siamo scambiate un “ciao”.