Beatrice Gigli ci conduce, con le sue Beatitudini, in un viaggio alla scoperta di storie e luoghi nascosti, tanto misteriosi quanto affascinanti. Ogni racconto è un viaggio verso l’inaspettato, dove la bellezza segreta di realtà spesso dimenticate si svela a chi le sa cercare. Vere beatitudini per chi le esplora, questi frammenti di storia e cultura aprono una finestra su mondi ricchi di meraviglia e significato.
Se Guineforte non fosse stato un cane, avrebbe potuto tranquillamente essere uno dei protagonisti delle novelle del Racconto dei Racconti di Gian Battista Basile, quella raccolta di fiabe, la più antica d’Italia, che racchiude in sé la complessità dell’animo popolare.
Ma la sua storia appartiene a una dimensione più oscura, un’ epoca in cui era ancora forte la sopravvivenza del paganesimo, e i santi cristiani si scontravano ancora con le vecchie divinità pagane in una battaglia silenziosa fatta di culti rubati, rituali nascosti e solstizi trasformati in festività religiose.
Ho percorso i sentieri che conducono nei boschi dove ancora oggi si narra della sua leggenda. Tra Pavia e il Ticino, nell’ombra degli alberi secolari, il vento sembra sussurrare il suo nome: San Guineforte. Qui, in alcune chiese, le madri si inginocchiavano, per chiedere la guarigione dei loro figli, recitando antiche invocazioni: “San Guiniforte, la vita, la morte!”.È una formula sospesa tra fede e disperazione, che riecheggia la credenza medievale della “sostituzione” dei bambini, quando si pensava che spiriti malvagi scambiassero i neonati sani con quelli malati.
La storia di Guineforte affonda le radici in Francia, in una cittadina non distante da Lione. Guineforte era un levriero da caccia, devoto al suo padrone e coraggioso difensore della sua famiglia. Un giorno, salvò il neonato del cavaliere dai morsi letali di una vipera, ma la sua fedeltà venne tragicamente fraintesa. Il padrone, vedendo la culla rovesciata e il sangue sulle sue zanne, credette che il cane avesse attaccato il bambino e, in preda alla rabbia, lo uccise. Solo dopo scoprì il corpo senza vita del serpente accanto al bambino illeso. Colto dal rimorso, il cavaliere seppellì Guineforte e il luogo della sepoltura divenne subito un luogo di venerazione popolare.
Lì, i contadini iniziarono a portare i loro figli malati, invocando la grazia del levriero martire. Nacque così un culto clandestino, dove superstizione e bisogno di miracoli si mescolavano. Il rito prevedeva che il bambino venisse spogliato e posto tra due tronchi d’albero, circondato da candele, per poi essere immerso nelle gelide acque del fiume Chalarone. Se il bambino sopravviveva, si credeva fosse guarito, ma se moriva, ciò significava che i fauni diabolici non lo avevano restituito, accettando così la sua tragica sorte come volontà divina. Questa pratica era una vera e propria Ordalia, un giudizio di vita o di morte rimesso al volere divino.
Questo culto crebbe così tanto da attirare l’attenzione della Chiesa. Nel XII secolo, l’inquisitore domenicano Stefano di Bourbon, sconvolto dall’esistenza di un culto dedicato a un cane, ordinò che la tomba venisse dissacrata. Ma nonostante gli sforzi della Chiesa, il culto di San Guineforte non scomparve mai completamente. Dalla Francia attraversò i confini e arrivò in Italia, dove, nei secoli successivi, continuò a essere invocato come protettore dei bambini, con il nome di Guiniforte, in molte chiese del Pavese.
“San Guiniforte, la vita, la morte!” Un’eco lontana di un tempo in cui la fede e la magia camminavano fianco a fianco, creando una strana, ma potente, forma di speranza.