“Tenere insieme”, o anche parlare di sé senza essere goffi

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Foto di Inge Hartmann da Pixabay

La pietà degli ultimi mesi ha messo sul piedistallo gli operatori del sistema sanitario, ma il poeta non tratta cose meno estreme. Lo dice ogni pagina della silloge di Gabriel Del Sarto, Tenere insieme (Pordenonelegge – Samuele Editore, settembre 2021, pp. 196, € 13), anche dove il suo sguardo si ferma su semplici, fatali dettagli – “il verde quasi/ blu di una sera come questa, a fine/ estate, sollevata dal mondo” –, con una precisione che è già parlare dell’eterno. Salvare, riconoscere, descrivere, ricordare, capire. Raccogliere sfumature e oggetti fatti simbolo. E i pensieri come cose, densi e compositi, uno per uno, per niente cartesiani.

Siamo abituati a indignarci quando le persone vengono trattate come cose. Eppure molti sono condannati a ben di peggio: a essere solo i fantasmi di chi li guarda. A morire della cecità di chi cammina “senza vedere chi, vicino e attorno a lui, vive gli stessi attimi” – ed è la nuova resistenza, la nuova guerra di trincea, per cui un poeta, anni dopo, (l’oscurità depositata in linee che sottolineano i contorni), magari potrà fermarsi e dire la ferita mortale, “quella luce che passa/ fra le cellule buie”.

Il poeta tratta le persone come cose, meravigliosamente esistenti, presenti, percepibili, significative. Come “un rumore di passi bagnati sulla ghiaia”, come “neon/ e altre polveri”, come “margherite, un tappeto, nell’oscurità”, come il “pomeriggio dolce/ che s’adagia nel giorno”, come, nel giardino, “l’ombra della casa”, che “si fa più lunga,/ più spessa, all’ora di rientrare”, come il blu tortuoso di una vena velata dalla pelle di un viso amato. Tutto aggredisce il suo vedere; l’identità delle cose non cede al buio, ed è immensamente più bianco un tappeto di margherite nel buio. “Penso a noi, a quando/ in estate la sera ispessisce le foglie.” Un neonato che dorme, “la trasparenza vasta della sua pelle”.

La pietà degli ultimi mesi ha messo sul piedistallo gli operatori del sistema sanitario, ma il poeta non tratta cose meno estreme. Lo dice ogni pagina della silloge di Gabriel Del Sarto, Tenere insieme

E così, guardando e salvando tutto con precisione, si può perfino parlare di sé senza essere goffi: “quando sfiorare lo schermo/ del telefono cellulare è l’unica forma/ di contatto con se stessi – una circolazione fluida/ di plasma e sangue – mentre un filo/ d’aria condizionata scende dall’alto/ e la musica fredda scivola senza fine”. Perché l’io sta sullo stesso piano del rotolare refrigerante di gas e impurità, con le sue musiche implicite, che la vita ti sfida a voler sentire. Ed è evidente quanto in là ci si deve spingere e a quel punto quale – quale! – il rischio. “Qui/ non c’è più attesa, ma una luna, memoria/ e versi, e cose che moriranno”. Questione di vita o di morte, davvero. Sprofondare nel significato unico e indicibile, che non vorrebbe staccarsi dalla sua carne figurata per diventare solo parola. È la guerra del poeta, che strappa lettere da comporre in frasi che sanno scoprire singolarmente esistenti le cose: “camminando per i cammini terrestri/ grassi di materia”, “in questo giorno disuguale,/ con un diverso peso nei pensieri/e negli atti”, “anche adesso che i miei pensieri/ sono dita sul volante all’alba” e “vite passano/ come riflessi sparsi della luce azzurra/ dell’insegna al neon che bolle dentro/ le pozzanghere”. “Sono qui,/ con l’alcol colorato e mescolato,/ e siamo due che ridono quasi/ felici, lei quasi senza un nome”. È una vertigine di cose, che devono in qualche modo accordarsi per avere un suono giusto e, a quel punto, una parola.

Anche se “non è possibile/ tenere vivi tutti i significati”. Questioni di morte.

E di vita. “Le porte, domani, e un mattino/ in cui chiedersi se amare/ è ancora togliere morte/ se il cosmo non ci ignora”.

A quel punto solo può darsi un assoluto etico, o esistenziale, o logico: dopo le cose, dopo il tremendo apprendistato. Perfino confessare il clima in cui vive è per il poeta un rischio: è un posto pericoloso, scomodo, sferzato “da quel vento che ruota fra queste montagne/ e colpisce la nostra casa più di altre”. Eppure ogni parola si slancia e dice tu – perché tu, tu, tu permetti “che io legga,/ in un istante, il punto che occupo sulla terra”.