
“Se i musei storici sono il sedimento di secoli di colonialismo, di rapine e scorribande, quelli contemporanei sono colonialismo in fase ancora infettiva, sono il risultato della coazione a guardare all’attualità attraverso uno schermo asettico, una overdose visiva”. Un’arte alchol free, decaffeinata, priva di slanci vitali e ribellione, da retroguardia e magazzino più che da avanguardia e laboratorio. È l’arte com./temporanea secondo Pablo Echaurren, ben stroncata nel suo ultimo pamphlet “Adotta un’artista e convincilo a smettere per il suo bene”(KELLERMANN). Opera in cui questo ultimo dadaista, tra 68 e Duchamp, il futurismo e il movimento del 77, compie una feroce e travolgente radiografia, o autopsia dato il contenuto, della scena artistica attuale. Per Echaurren l’arte e l’artista si sono definitivamente compromessi col mercato, col proprio tempo, con una dimensione sterile ed autoreferenziale. Passando da un’arte trascendentale a trashendentale, da artista fou a foule. Non riuscendo più a rappresentare, analizzare , la società dei consumi, diventandone un sottoprodotto. Se negli anni sessanta e settanta si decise di uccidere l’arte per resuscitarla nella vita quotidiana, esaudito questo progetto si è finiti col tramutare gli slanci rivoluzionari nelle mode collettive, da un’arte per tutti alla deriva punk del “tutti artisti, tutti anartisti”. Sovversivi naufragati nel cortocircuito del mondo artistico che ha convertito il vecchio “la fantasia al potere” in “o Moma o morte”… Trasformando l’arte da problema che si poneva di fronte al genocidio culturale del consumismo alla soluzione del collasso di tale mondo, l’apocalisse degli integrati. Da sedizione a seduzione della merce. Una deriva dell’arte che cercando di contrastare ogni eternità, ogni imperativo categorico, ha salvato solo quella del mercato. Correggendo Fukuyama, siamo nell’epoca della end of art: “essa ha cessato di essere strumento di disvelamento, espressione di pensiero critico insofferente verso il contesto in cui opera, diventando il passaporto di una integrazione annunciata mantenendo un antagonismo di facciata”. Un’arte che non spaventa o inquieta più, la cui posizione di critica verso il presente fa presupporre un triste avvenire della critica. Un’arte più di Argo Panoptes che di Prometeo, dei guardiani, dei sorveglianti, persuasiva nella sua missione di vendicatrice universale, che attraverso vaghi fumogeni di protesta scambia la radicalità con l’eccentricità, la solidarietà con la visibilità, l’originalità con il luogo comune, i giustizieri con gli Avengers. “Millantata, dilagata, allargata, a volte poco pensata, ha il bisogno di essere accettata, approvata” perché la vera umiliazione non sta nell’essersi venduti, ma nel non essere acquistati. L’artista contemporaneo fa infatti parte di un sistema che gli garantisce una insubordinazione virtuale, concedendo capricci e piagnistei, ma non proteste, la libertà d’espressione non l’espressione della libertà. Malato di ubbidienza e settarismo, scontato e svenduto. Autore di una arte sagra, più che sacra, di una sagra sindrome, che dopo l’arte in ogni luogo ha preferito l’arte è ogni logo. Dissolvendosi nella merce, confondendosi col prodotto. Un prodotto precarizzato, affidato ad un mercato, non tanto da condannare come mezzo(d’altronde c’è sempre stato), ma come fine, come ideologia. Orientato all’installazione, al catalogo, al post. Il sogno dell’immaginazione continua a produrre mostre che non hanno nulla da mostrare, con le biennali i nuovi piani quinquennali dell’arte, gli artisti che non riescono ad essere migliori del loro pubblico, ma spesso si sentono superiori ad esso, sbagliando. “pacificato con la propria reificazione, sindacalizzato nella propria pretesa di autoafermazione”, professionale non professionista, che non capisce che l’arte non si compra, ma si merita, chiudendosi in se stesso, credendo di scampare ai neon dello spettacolo, ignorando di essere il riflettore del consumo. Più che il cabaret Voltaire ricorda il Bagaglino, sbeffeggiando ubbidientemente il proprio padrone, ornandosi dell’unica dote rimastagli: l’ingratitudine. Echaurren in questo pamphlet spietato regala un ritratto disincantato e vivace dei peccati dell’arte com./temporanea, rispondendo con una grande e divertente provocazione, ad una arte capace solo di qualche delicata decorazione