Il tono è lieve, tutto escogitazioni e giochi di parole, a cominciare dal titolo: Fifty-fifty. Warum e le avventure Conerotiche (Terrarossa edizioni 2021, pp. 268, € 15,50). “Paradossi accesi l’uno dall’altro, in scariche festose.” Sembra un’umanità inventata da un copywriter, quella di Ezio Sinigaglia, nella sbornia degli anni ’80. Gente prigioniera del suo nomignolo, incapace di andare più in là (e fortunate le due che ne hanno uno rubato a Virginia Woolf). Ridacchiano, parlottano, anche l’amore ha sempre un diminutivo sciocco. Perché non è quello grandioso, che appena irrompe sulla scena rende tutto così evidente: la stessa nettezza delle differenze e quindi dell’unicità di lui/lei, e la tragedia che pulsa tra voce e voce, sorriso e sorriso, quando lui/lei manca. Mozza il respiro di Warum, il protagonista, intelligenza narrante; trapassa i profili del mondo in cui barcolla.
Solo i suoi occhi sanno vedere il simbolo nel muoversi di un corpo: e forse l’amore umano è appunto questo.
“Mi strinse i polsi, si curvò, soffiò dalle narici, buffamente, involontariamente. Spense la fiamma. Risi. Accesi ancora. Ancora gli porsi le mie mani, come una coppa ardente. Non erano fermissime. Non che tremassero, ma certo erano inquiete. Fifì le strinse forte. Calde erano, le sue, caldissime. La fiamma sembrò per un istante rivelarci i nostri scheletri, i metacarpi, le falangi, come rami calcinati.” E ancora: “La nostra era una comunione perfetta entro la quale il problema, pur così astratto e metafisico, del come e dove la lama manichea del voler bene dovesse separare i corpi dall’amare non riusciva a intrufolare neppure l’acume della punta.” Fino al punto che: “sembrava di far l’amore camminando. Ritardando l’orgasmo d’ore e ore, come tibetani.”
Eppure c’è qualcosa di spettrale in “quell’immobilità di bramosia, tesissima e contratta”, nell’imminenza pastosa di un bacio che echeggia al contrario e se non si troverà la fonte vorrà dire che anche il futuro è perso. “Le carezze mi pesavano, non sapevo dove gettarle.”
Già da bambino Warum, eroe tragico, desiderava la musica e ne era impaurito, perché lo tormentava con quella rivelazione di morte che non poteva non presagirvi. “Morire tutti: che assurdità ridicola. Una vera enormità. Tutto il resto diventava minuscolo, al confronto.” Era un Proust, Warum, destinato all’amore con la stessa forza con cui l’erede al trono è destinato alla corona. E invece no. Noioso spiegare i perché, figuriamoci i perché non.
Qualcosa di assurdo e velenoso gli nega il bacio necessario, il bacio logico, il bacio ontologico. “Morrriamo tutti, e ben più di tre volte. A poco a poco, diventa un’abitudine”.
È così bello questo romanzo. Ne vorrei citare pagine su pagine, con la gratitudine con cui le leggevo. Le leggevo come se in qualche modo avessi avuto il permesso di immischiarmi nella storia, di incidere un piccolo solco, di andare a correggere quel minuto sbagliato. Non so neanch’io perché non l’ho fatto. “A poco a poco, diventa un’abitudine”.