Il teatro non si ferma… e gli attori neanche

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Ci sono storie di cui nessuno parla, artisti dimenticati, strappati con forza alla loro arte, ci sono voci soffocate e platee disanimate. C’è il sordo grido di chi ha perso quasi tutto, la rassegnazione di chi da più di un anno attende riaperture che stentano a ritornare, come se l’arte non fosse più una priorità degna di tutela per questo paese quasi perduto. “Noi, senza di voi, non esistiamo” si legge sull’insegna del Teatro Diana di Napoli, come se il mondo dello spettacolo avesse irrimediabilmente bisogno del suo pubblico come intima e profonda ragion d’essere. Mai come in questo momento, ogni poltrona vuota di un teatro è una ferita giorno dopo giorno più lacerante sul cuore di chi, per il teatro, ha speso la propria intera vita. Ed è proprio in questo clima di sconforto senza eguali nella Storia, che ascoltiamo la voce di uno dei protagonisti, Peppe Villa, attore napoletano, ormai fermo da marzo 2020, che in prima persona ci racconta la sua esperienza, fatta di speranza, strategia, inventiva e voglia di rimettersi in gioco con un’idea assolutamente geniale…

Peppe, ci sono stati momenti in cui l’angoscia dell’ignoto sembrava aver preso il sopravvento sulla tua speranza? Momenti in cui hai creduto davvero di non farcela economicamente – in cui magari hai dovuto attingere ai tuoi risparmi – o anche addirittura momenti in cui hai creduto che non saresti mai più tornato sul tuo palco?

Non lo negherò, c’è stato un lungo periodo in cui mi sono sentito davvero solo e soprattutto abbandonato, in primis dallo Stato: per alcuni criteri sballati, infatti, per pochi punti, non sono riuscito ad avere accesso a nessun ristoro destinato alla categoria di cui faccio parte.

Credo sia stata proprio la disperazione a spingermi a trovare una via d’uscita “doppia”, sia economica che psicofisica, poiché un attore non può stare troppo tempo fermo, senza relazionarsi con il suo pubblico, pena la depressione, il senso di infinita mancanza interiore nel non poter più allenare quotidianamente il proprio strumento fisico che lega corpo e voce.

Sei ottimista per il futuro? Ritieni che le riaperture si verificheranno a breve senza ulteriori danni o hai iniziato a perdere fiducia nelle istituzioni come la maggior parte degli italiani colpiti dalla chiusura forzata delle loro attività?

Sono ottimista perché sono una persona ottimista di natura. Ma per quanto riguarda le riaperture immediate a dirti il vero sono un po’ scettico. Avevano addirittura annunciato le riaperture dei teatri per il 27 marzo, ma anche in questo caso si è rivelato un nulla di fatto.

Parlandoti poi da addetto ai lavori e non come gestore di locale, una possibilità di riapertura purtroppo non sottintende nell’immediato il riprendere a lavorare per molti di noi.

Per quanto mi riguarda e credo per molti dei miei colleghi operatori del mondo dello spettacolo c’è bisogno di un ingaggio, di un progetto per mettere in moto tutta la macchina organizzativa e creativa, e tutto questo sicuramente è inficiato dal clima di assoluta incertezza che ancora prevale in questo momento.

Per reinventarsi ci vuole enorme coraggio e una dose non indifferente di grinta, attributi che senz’altro ti contraddistinguono e che ti stanno accompagnando in questa esperienza di “teatro fuori dal teatro”. Ci hai dimostrato con un grande atto di non arrendevolezza quanto l’arte dell’arrangiarsi sia un dono prezioso e vitale in questo momento. Da dove hai attinto questa idea e questa forza?

È stato proprio osservando da lontano gli artisti di strada che ho meditato su questa idea, per poi trovare il coraggio di metterla finalmente in atto, fino a comprendere quanto questa nuova incredibile modalità mi possa effettivamente permettere un confronto diretto con il mio pubblico e con i passanti.

Sarò onesto, non ho mai provato un sentimento affine all’umiliazione, se penso a quest’operazione che sto mettendo in atto, anzi come la definisco io un’ “azione teatrale”. D’altro canto la stessa etimologia della parola attore – che deriva dal greco actor – significa proprio “colui che agisce”.

Ed io da buon attore sto agendo, per sopravvivere, per non essere travolto dagli eventi, per non lasciarmi consumare né affondare dall’incertezza di questo momento così difficile che negli ultimi mesi aveva cominciato a dare chiari segni di non ripartenza.

Il tuo esserci sempre – anche ora che il teatro non c’è – ti ha portato a declamare lungo il marciapiede di Via Luca Giordano, tra le altre cose, alcuni dei meravigliosi versi di Leopardi. Dunque ti chiedo, quanto è importante per i giovani il ruolo dell’arte e della recitazione nell’educazione, nella cultura, nelle relazioni, specie adesso che la socialità è solo un lontano ricordo e si vive solo di pseudo emozioni digitali?

L’arte teatrale – così come ogni altra forma di arte – è assolutamente fondamentale!

Ora più che mai c’è bisogno di far riavvicinare le persone. C’è bisogno di riprendere a stare insieme, e per fortuna l’esercizio teatrale, ma anche solo la pratica teatrale – e dunque non per forza finalizzata al dover andare in scena – lavora sulla vicinanza, sulle relazioni in presenza, e anche, speriamo il più presto possibile, sul respirarsi vicino, abbracciandoci e toccandoci senza aver più paura dell’altro.

Ed io credo che questo possa essere – anzi, sia – indispensabile per riuscire a ritrovare la nostra umanità.

Io poi, essendo anche un formatore teatrale, che da diversi anni conduce un piccolo laboratorio al Vomero, “La Taverna dell’Attore”, mi ritrovo oggi costretto a doverlo gestire da remoto e a impartire le mie lezioni solo attraverso il mezzo digitale, ragion per cui non posso fare a meno di avvertire ancor di più questo grande “bug” in atto.

Peppe, vuoi lanciare un ultimo messaggio ai lettori che conosceranno la tua storia?

Non dobbiamo e non possiamo arrenderci proprio ora: stiamo vivendo come in una guerra, e siamo sotto i bombardamenti.

Ma dobbiamo fare in modo di riuscire a superarla, non dimenticando mai il senso di umanità e di appartenenza che ci ha contraddistinto specialmente nel primo lockdown in cui eravamo veramente tutti spaventati. E l’arte sicuramente può rivelarsi un’arma potentissima per far sì che questo accada.