La fanta-coscienza di Daniele Ciprì

0

Daniele Ciprì oltre ad essere un grande autore della fotografia è uno degli ultimi autori irriverenti italiani. Un grande regista che ha saputo mettere (o forse togliere) in scena un mondo fatti di deformazioni fisiche e psicologiche, corpi mangiati dalla vita e vomitati nel più buio degli inferi, dove però è possibile ridere delle proprie sciagure nonostante tutto. Il suo è un cinema decadentistico, il ritratto metafisico di una periferia che, seppur siciliana, rievoca l’impronta del primo Pasolini. Adesso grazie alla Cineteca di Bologna è risorto in 4k “Totò che visse due volte”, il film per cui Ciprì e Franco Maresco vennero condannati al silenzio, riscattando quella libertà di espressione che nell’arte, quando ve ne sono tracce, dovrebbe essere sempre la colonna portante.

Nel 1998 esce il film da te diretto assieme a Franco Maresco “Totò che visse due volte” ma non appena mette piede in sala, viene bandito con una censura che definisce l’opera come “degradante per dignità del popolo siciliano, del mondo italiano e dell’umanità” nonché “offensivo del buon costume, con esplicito disprezzo verso il sentimento religioso e contenente scene blasfeme e sacrileghe, intrise di degrado morale”. Cosa accadde dopo?

Praticamente siamo stati processati. Abbiamo subito un lungo processo e siamo stati costretti a pagare avvocati per una causa che nonostante siamo riusciti a vincere, in quanto non esisteva più il vilipendio alla religione di stato, non abbiamo avuto alcun risarcimento statale. Diciamo che “Totò” ha vinto adesso grazie alla politica degli autori, anche se un film del genere oggi sarebbe impossibile immaginarlo. Il nostro era un film libero in cui c’era un forte sentimento, una rappresentazione della chiusura del mondo che avevamo creato con “Cinico Tv”, perché raccontava il disastro di una popolazione che è stata creata da Ciprì e Maresco come per un film fantasy. Una delle nostre ambizioni era di fare un cinema fantascientifico o meglio di fanta-coscienza, con dei personaggi che si trovano in luoghi che raccontano, come in questo caso, la crocifissione di tre vite la cui fine è piuttosto cupa. Quindi era una considerazione libera e questo ci ha dato dei problemi perché la libertà in Italia, in quel periodo specialmente, era controllata dalla censura e quindi è normale che un film come il nostro non poteva assolutamente passare. Ciò che comunque ci divertì per certi versi è che loro (la censura) ci chiamavano per tagliare delle scene, cosa che non abbiamo mai accettato e infatti il film uscì vietato ai minori di diciotto anni, cosa che già comportava una grave perdita dal punto di vista economico. Oggi mi sembrerebbe persino ridicolo pensare al visto censura con tutto quello che si vede in televisione. Quello che mi rincuora è che il tempo ci abbia riscattati, perché noi siamo stati sempre la dimostrazione di un cinema libero, indipendente e lo dimostra questo film a dispetto di un linguaggio cinematografico che si è fatto calcolatore. Noi non calcolavamo nulla, eravamo liberi da tutto, anche dalla provocazione. Non volevamo provocare nessuno se non noi stessi, perché era la chiusura di un mondo che volevamo ormai estinguere assieme ai suoi abitanti, vite degradate lasciate senza umanità in luoghi distrutti in cui non vi era alcuna traccia di femminile e quindi non si moltiplicavano, infatti sono scomparsi quasi tutti. L’ultimo episodio del film, che è quello che ci ha dato più problemi, era la conclusione di questo percorso che nel tempo avevamo conseguito con la libertà d’autore, cosa che oggi è impossibile pensare. Credo che il cinema debba essere un’esigenza del regista e non un lavoro, quindi cerco attraverso i film di esorcizzare un mio malessere o soprattutto far riflettere il pubblico, cosa che facemmo anche attraverso il finale de “Lo zio di Brooklyn”.

Totò che visse due volte” racconta di un mondo finito, post-apocalittico. È come se il film vivesse di una disperazione nel buio più profondo. Come hai lavorato alla pellicola?

Guarda, ti svelo il segreto di come ottenevamo tutto questo. Noi avevamo un contatto molto stretto con l’umanità che raccontavamo perché la nostra esigenza nasceva dal voler narrare questi personaggi che venivano dalla strada, ma accordandoli come strumenti musicali utilizzando le note di ognuno. Facevamo una riflessione psicologica sull’umanità, per questo parlo di fanta-coscienza, perché non ho mai fatto un film realistico. Per me il reale lo devi filtrare. Sono sempre stato alla ricerca di qualcos’altro nel cinema, qualcosa che provenisse da un mio immaginario e quindi amavo evocare i miei miti, John Ford, Orson Welles ecc. Poi sono sempre stato un appassionato del cinema di fantascienza degli anni ’50 e di film come “L’invasione degli ultra corpi” e quindi, quando posizionavamo la macchina da presa la scena era già fatta, bastava che passasse uno in mutande ed avevamo il pretesto per raccontare in maniera universale la fine del mondo. Non abbiamo mai cercato di fare film drammatici, eravamo più interessati ad urlare una preghiera disperata, come l’ha definita Goffredo Fofi. Ridevamo con i problemi e ci siamo divertiti tantissimo nonostante avessimo un appuntamento fisso con la censura. Noi eravamo quella coscienza umana che ti dice: “Ricordati che devi morire.”

La pellicola si apre su un uomo, o quel che ne resta, mentre ha un rapporto sessuale con un asino. Poi l’inquadratura indietreggia con una carrellata e vediamo che quell’immagine è la scena di un film che viene proiettato in un cinema dei bassifondi. Quella scena è estratta da “Lo zio di Brooklyn”, il film diretto precedentemente da te e Maresco. Come vi è venuta in mente quest’idea, per altro molto riuscita, di fare un autocitazione?

Non è un autocitazione, bensì l’immagine di un mondo che si ripete, quindi non era un omaggio a noi stessi ma la dimostrazione che il mondo di Ciprì e Maresco girava su sé stesso e dunque anche il film veniva visto al cinema dagli stessi personaggi che albergavano in quel mondo, in quell’universo.

Allora potremmo definirlo meta-cinema ?

Si. Diciamo che era una riflessione sul mondo in sé. Calcola che eravamo totalmente fuori dal circuito cinematografico e da quello televisivo perché, mentre la tv di quegli anni urlava, noi mostravamo un’inquadratura fissa in bianco e nero su un personaggio che se gli chiedevi chi fosse, lui ti rispondeva: “Un pezzo di merda.”

Da cattolico, trovo che in questo ci sia una visione ancestrale, probabilmente pre-cristiana, che lancia una forte critica ad un mondo distrutto e a una sacra natura ormai in decomposizione. Quindi credo che la sua spiritualità sia celata, ma è presente.

Bravo. In realtà, come dice Fofi, si vede anche dall’estetica che richiama comunque immagini sacre. Molti cattolici ci difesero perché il film era sul non-essere e anche Gesù Cristo non era essere. Il problema è che non si è mai disposti a cambiare i cliché, per cui l’artista deve essere condizionato e invece credo che bisogna avere sogni tranquilli e incubi, come diceva Fellini, raccontando anche il male ma con una visione alternativa. Se cambi i parametri il significato acquista valore, perché ti arriva come un colpo in testa.

Bisogna, come diceva l’immenso Carmelo Bene, essere altrove?

Esatto. Tra l’altro, quando chiesero a Carmelo cosa salvasse del cinema del novecento, lui rispose: “Lo zio di Brooklyn. Quello è l’unico film alla mia altezza.” Poi ci siamo conosciuti a Palermo e per me è stata un’emozione poter sentire la sua voce dal vivo, poi per me era un mito.

Pochi anni dopo dirigete nuovamente insieme “Il ritorno di Cagliostro” con un duo clownesco strepitoso, Gigi Burruano e Franco Scaldati. Un’opera che, seppur grottesca, si scosta dal mondo “Cinico” da cui provenivano i vostri precedenti lavori.

Guarda, l’idea era di fare una commedia alla Billy Wilder, perché oltre la fantascienza abbiamo sempre amato le commedie alla Blake Edwards ecc. Volevamo far ridere il pubblico ma con una riflessione, cosa che diceva anche Mario Monicelli. Quindi ci venne in mente di raccontare la storia, ovviamente riscritta a modo nostro, di una casa cinematografica siciliana che abbiamo avuto a Catania per omaggiare quel modo rocambolesco di fare film e allo stesso tempo omaggiare noi stessi. Così vennero fuori i fratelli La Marca, due creatori di statue di santi che riescono ad avere un rapporto di amicizia con un cardinale per farsi produrre i propri film che sono orrendi. In quel caso abbiamo raccontato, prendendo spunto da una storia vera, l’amore di qualcuno che ama il cinema ma è impotente nel saperlo fare, facendo anche una riflessione sul nostro cinema. In fondo Scaldati e Burruano interpretarono magistralmente quei due personaggi che rappresentavano in realtà una presa in giro di noi stessi, utilizzando anche la figura del nano che ci rimproverava dicendo: “Questi due non hanno capito un cazzo!

So che da piccolo, grazie a tuo padre hai scoperto l’amore per il cinema. Qual è stato il primo film che hai visto? E quand’è che hai scoperto che la settima arte era la tua vita?

Guarda, mio padre era un riparatore di macchine fotografiche, amava i film e portava sempre la famiglia al cinema e ricordo che mentre mamma dormiva nella poltrona, io, mio fratello e lui vedevamo i film. Ti confesso che a volte mi addormentavo anch’io, perché ero molto piccolo. Pensa che è stato il destino a decidere che io dovessi entrare nel cinema, perché la mia casa si affacciava su un’arena e la prima cosa di cui m’innamorai fu il buco dove si proiettavano i film. Mi appassionava non tanto il proiettore ma spiare le persone che guardavano la pellicola e quindi, quando le osservavo da quel mirino era come se le stessi inquadrando e immaginavo le loro espressioni davanti ad ogni scena, una malattia praticamente. Con mio padre ho visto film belli e film brutti. Poi era un appassionato di western e quindi me li ha fatti vedere tutti. Quando poi arrivò nelle sale “5 dita di violenza” con Bruce Lee, ricordo che rimasi davanti a quel manifesto a Palermo e dissi tra me e me: “Porca troia, è finito il cinema western.” La cosa bella è che mio padre non era un culture, era uno che amava il cinema e basta, per cui qualunque film lo andava a vedere. A Maresco raccontavo sempre una cosa che lo divertiva molto ed era che grazie a papà ho visto tutti i film di fantascienza, da “Godzilla”a quelli cinesi fatti proprio male e ad un certo punto andammo al cinema a vedere “Solaris” di Tarkovskij e dato che io ero piccolo e lui non era un cinefile, uscimmo dalla sala senza capire una minchia. Lì ho cominciato inconsciamente ad immergermi in quella visione di cui parlavo all’inizio, la fanta-coscienza.

Cosa intendi col dire che “il cinema è morto come linguaggio ma sarà in vita per sempre”?

In realtà lo definisco anche uno zombie, un morto-vivo. Il cinema, di fatto, non morirà mai per chi lo vede come intrattenimento. Bisogna fare film per la gente, che però dev’essere condizionata da te regista, non può esserci il contrario. Invece oggi credo che venga fatto soltanto un cinema con la gente e di conseguenza muore all’istante perché se bisogna fare delle opere in base al gusto del momento allora che cinema è? L’artista deve condizionare il pubblico a vedere un immaginario, una malattia e questo noto che accade di più all’estero, un esempio su tutti è “Il sacrificio del cervo sacro” di Lanthimos. Ricorda, quando farai un film cerca di immaginare tutti quei grandi uomini che hanno lottato per avere la libertà di fare un’opera come desideravano ed è una cosa che non avrai mai. Ci sarà sempre qualcuno che ti dirà di cambiare tante cose e lì dovrai essere in grado di farti valere, anche perché la cosa più giusta da fare, in realtà, sarebbe quella di sputargli in un occhio, alla Totò.