“Qualunque storia ambientata in Sicilia, per tutta una serie di ragioni letterarie e cinematografiche assume uno speciale significato. Per dirla alla Sciascia, la Sicilia continua ad essere ancora metafora dell’Italia e del mondo”. Lo afferma Gaetano Savatteri, giornalista e scrittore, nato a Milano ma racalmutese da sempre, cresciuto in un triangolo ad alta densità letteraria (“ a venti chilometri c’erano la Girgenti di Pirandello e Vigata, la Porto Empedocle di Camilleri”), autore dei romanzi da cui è tratta la fiction di Rai1 “Màkari”, che si concluderà il 29 marzo prossimo. Ben 6 milioni di spettatori a puntata per questa nuova detection del lunedì sera che è riuscita a coniugare la bellezza aspra del territorio con le tante sfaccettature di una sicilianità capace di stupire sempre, nel bene e nel male. “E’ proprio l’isola il personaggio comunque presente, che dà vita e tono alle storie” precisa Savatteri. Una terra di cui il protagonista, il giornalista Saverio Lamanna (Claudio Gioè), sente l’appartenenza e il richiamo; ma da cui prende anche le distanze per quei tratti che ha sempre considerato causa delle ataviche problematiche che ne hanno rallentato il progresso. Saverio Lamanna però ha anche il pallino dell’investigazione e potrebbe essere un nuovo Montalbano… Chiediamo al suo autore per saperne di più.
Come hai concepito il personaggio di Lamanna, giornalista detective?
“La prima cosa che salta all’occhio è che Lamanna è un giornalista disoccupato, che si era tramutato in un comunicatore politico e, nel momento in cui perde il lavoro al Ministero dell’Interno, torna in Sicilia perché pensa sia il posto migliore per i disoccupati. Ho concepito il personaggio vedendo tantissimi colleghi più giovani di me che sono precari a vita e non avranno mai le garanzie dei loro fratelli maggiori o padri, per i quali il mestiere del giornalista, pur avendo la poesia, la bellezza e la capacità di incidere sulla vita, è diventato spesso un lavoro di copia-incolla. Nel momento in cui torna in Sicilia, Lamanna riscoprirà ciò che lo aveva spinto a fare il giornalista: la curiosità, la voglia di sapere, di indagare, il desiderio di andare oltre le apparenze, ritrovando l’essenza e i valori del mestiere al quale aveva creduto e dal quale era rimasto per molto tempo deluso. Nel momento in cui non ha più un giornale, un capo e una redazione, riscopre di essere un giornalista, un po’ ficcanaso e investigatore, come sono spesso i giornalisti“.
Il regista della serie Michele Soavi ha definito Lamanna un Don Chisciotte in balia delle onde, il suo amico fedele Piccionello, Sancho Panza e la donna amata Suleima, la Venere della porta accanto. Cosa pensi di questi accostamenti?
“Sicuramente Lamanna e Piccionello appartengono alla grande categoria della coppia comica; e Sancho Panza e Don Chisciotte ne sono la prima rappresentazione in Europa. Suleima è una Dulcinea del Toboso con la quale magari ci vai a letto, ma poi la devi conquistare. I personaggi appartengono inevitabilmente a dei generi parte della nostra letteratura e del nostro immaginario. C’è chi ci vuole vedere Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, chi Sherlock Holmes e Watson. Dal mio punto di vista ho pensato che Lamanna rappresentasse l’anima disincantata e razionalista dei siciliani che si devono difendere dalla Sicilia. Mentre Piccionello è quel modo di rapportarsi alla Sicilia in maniera emotiva, di pancia. Suleima è la donna che riesce a fare sintesi di queste due cose, con la sensibilità e l’intuito femminile”.
La serie è stata paragonata a Montalbano. C’è un rapporto tra il giornalista detective e il commissario?
“La relazione tra Lamanna e Montalbano non è di eredità o passaggio di testimone, ma di parentela. Chi scrive in Sicilia e sulla Sicilia ha inevitabilmente una parentela con tutti quelli che lo hanno fatto. Io ho una parentela con Camilleri, Sciascia, Brancati. Siamo tutti parenti litigiosi, ognuno dei quali tenta di descrivere la propria Sicilia, ma nel farlo non può prendere le distanze da quello che è già stato scritto”.