Francesco Faraci, oltre la fotografia

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Veste luoghi, sapori, odori, musiche attraverso la forza dirompente della fotografia. Nasce a Palermo nel 1983 e dopo una collaborazione di sei anni in un’azienda di call center decide di mettere in fila gambe, esperienza, testa e cuore per andare su strade più sue. Un dopo che non conosceva ancora e che forse era per lui il lato più intrigante di ogni forma di bellezza. La vita è così a volte non ha bisogno che qualcuno ci spinga da dietro ma che qualcosa ci attragga davanti. Scegliere vale più che cambiare. E Francesco Faraci dopo aver chiuso una porta alle spalle, senza sbatterla si è lasciato interrogare dalla fotografia facendo in modo che questa lo interrogasse. Un percorso il suo, in continua evoluzione, dopo la pubblicazione del libro “Malacarne” (2016), un progetto grazie al quale ha raggiunto riconoscimenti importanti, un viaggio lungo tre anni nel ventre della sua Palermo dove le fotografie restituiscono la prospettiva di un’adolescenza negata. La periferia accoglie, non respinge nessuno, c’è un profondo rispetto per i soggetti fotografati, per le loro condizioni, le loro legittime aspirazioni, tutto riportato con sensibilità e attenzione. Un lavoro sincero e chiaro. E a distanza di qualche anno inizia una serie di collaborazioni con importanti personalità della musica italiana. Segue il tour fotografico di Jovanotti durante il Jova Beach party e le sue foto vengono raccolte in un libro edito Rizzoli. La vita dentro le canzoni attraverso la fotografia. Un percorso che ha portato Francesco ad avere una mira più ampia e lo ha spinto a non perdersi dietro un obiettivo preciso. A saltare nel vuoto e questo sembra essere il suo motto, a ricercare l’abbondono come forma d’arte e a viverlo come inizio di “una nuova era”. Ma sono le foto della sua Palermo a dargli una grande visibilità sui social e poiché per Francesco non c’è mai un punto di arrivo e le fotografie non devono essere assolute, lascia ad ognuno la libertà di costruirci la propria storia. Nei suoi scatti ci mostra la realtà per come si presenta, senza forzature, pose, filtri, maschere. Perché dice “è la fotografia che viene a cercarmi” e di questa Francesco si fa essenza e conseguenza, l’uso ricorrente del bianco e nero come rappresentazione dello yin e lo yang di cui porta l’esistenza nella pancia e “ l’ombra nella luce di ogni cosa”. Nel lavoro durante il lockdown, nel silenzio della sua città, le persone si svuotano di ogni dimensione e riesce a scorgere il possibile dietro i dettagli. Una madre con un bambino sulle gambe, un uomo seduto su una sedia a guardare senza immaginare dove tutto questo tempo ci porterà. La vita che muove i suoi passi in tempi di sospensione, un tempo che diventa il baricentro di sguardi, carezze, abbracci in potenza. Francesco ci offre attraverso la sua fotografia un biglietto verso “futuri possibili” gravidi di libertà in azione. Di continue partenze, di brama e curiosità, assorbe la vita fuori dai recinti e dalle definizioni, il suo approccio “onnivoro” lo porta infatti ad essere scelto come fotografo per il progetto artistico dell’ultimo singolo di Achille Lauro.

“Contro tempo come Monk, fuori moda come un blues. Lievemente ipocondriaco, costantemente elettrico. Navi che salpano dal porto e prima di prendere il largo disegnano un’ampia curva nella rada, fischiando, salutando la terra, accogliendo l’altrove. Tutto è musica, il ritmo dei palazzi, della città, del mondo. È l’istinto che muove il mondo, pressione e tensione del sangue, della carne. Diventare se stessi, essere liberi, zittire il chiacchiericcio di fondo, saltare i recinti, è disciplina. La libertà, diceva Ferretti, è una forma di disciplina. Forse, senza troppa retorica, occorre un dolore da estirpare e la sicurezza di non riuscirci per superare la realtà, per uscire dal neorealismo pieno di clichè e costruire un immaginario, il mondo come vorrei che fosse. È il compito di una fotografia, delle parole, di chiunque voglia esprimersi. Uno sforzo necessario. I luoghi, tutti, hanno storie da raccontare fra le mura assolata, nelle crepe delle case. Diventare una pianta, mettersi in ascolto, abbracciare gli alberi, sorridere alla gente, non giudicare, mettersi allo stesso livello. Essere sinceri. Camminare, camminare e camminare, che Santa Strada ci assista, che il Dio di tutti i nomadi ci accompagni. Niente ricette, niente artifici. Entrare dentro le cose, anche a rischio di sbatterci contro, come cani randagi. C’è una poesia di Pier Paolo Pasolini, spirito guida, “La solitudine”. È tutto lì dentro, l’origine. Perché poi è solo questione di scavo per andare più in fondo, sempre più in fondo e poi alzare la soglia dei limiti e superarli, superarli e superarli. Poi si sa, che dopo una strada ce n’è una nuova e che sarai tu, quel tu che l’esperienza avrà fatto evolvere, a percorrerla. Sempre con l’animo di un bambino, quello che sta dentro, da qualche parte fra l’anima il cuore e la pancia, e che non è mai cresciuto e che si stupisce, si meraviglia, a voler uscire fuori, a camminarti accanto, a parlarti ancora e ancora della terra in cui nasci, della memoria a essa legata e che porti dentro come un tesoro. Un muro di arenaria, un albero di fichi al centro di un piccolo giardino e un gatto nero, con la coda enorme, che si siede su un ramo e lascia ondeggiare la coda. La scoperta del mare, della sua vastità. Quella del silenzio, delle estati selvagge e degli inverni passati dietro il vetro di una camera, desiderandone una nuova. Di ginocchia sbucciate, di rincorrere palloni, di primi baci e treni persi, rimpianti, rimorsi. Vita, vita e ancora vita. E poi l’amore, nella sua accezione più ampia, nei suoi mille volti e tutti diversi, perché è di questo che parliamo, andando avanti e indietro per le strade dell’esistere.” (Francesco Faraci)

Ed è proprio questo andare “oltre la fotografia”, lasciare punti di sospensione, porte aperte all’interpretazione altrui. Questo continuo immaginare il binomio parole e immagini, “come se fosse una danza in cui i due ballerini si incontrano ma senza mai toccarsi”. In tutto questo, l’humus, in cui Francesco abita la sua fotografia.