INTERVISTA PUBBLICATA SUL MENSILE CULTURAIDENTITA’ DI FEBBRAIO IN EDICOLA
Ferruccio Soleri è uno dei miti del teatro italiano, nato nel 1929 a Firenze, per sessanta anni è stato Arlecchino nello spettacolo italiano più celebre al mondo (3.000 repliche), inventato da Giorgio Strehler sul testo di Carlo Goldoni, ancora oggi un must del Piccolo Teatro di Milano.
Caro Soleri, rischiamo di arrivare a Carnevale 2021 con i teatri chiusi da un anno. Cosa ne pensa, è uno scherzo?
Non proprio. Il Covid ha colpito molti settori e lavoratori e ha causato perdite umane. Spetta alla nostra solidarietà organizzata aiutare e restituire dignità e lavoro. Anche chi opera nel teatro, e in generale lavora per la cultura, non è stato risparmiato. Anzi oserei dire che è stato tra i più colpiti. E questo mi addolora.
La prolungata chiusura sta mettendo in dubbio la stessa esistenza del teatro.
In passato i teatri restavano chiusi per calamità naturali, o per le guerre, o per la censura imposta dalla religione e dalla politica. La ripresa era veloce perché il sipario non stava abbassato ovunque, c’era comunque chi sfidava il pericolo e la paura. Oggi invece la certezza di ammalarsi e diffondere il virus è globale e ha imposto un comportamento sconosciuto ai più, sebbene a tutela della collettività. Ricordiamoci però che la cultura non si ferma, mai. Vedo lodevoli tentativi di forzare la clausura, ma non li definirei teatro, o per lo meno non in senso tecnico.
Qualcuno pensa che il teatro si possa fare a distanza, magari attraverso le nuove piattaforme digitali.
Recitare dal vivo con un pubblico in sala che condivide l’emozione di quel dato momento è un fattore insostituibile.
Il teatro resta un luogo fondamentale per la comunità. Dove si fa politica nel senso più alto del termine. Non è un caso che Strehler volle costruire il Piccolo Teatro sulle macerie della seconda Guerra mondiale. Anche lei è propenso ad attribuire al teatro una funzione alta?
Il Piccolo per volontà dei suoi fondatori aveva, in maniera illuminata, gettato le fondamenta per quella che lei definisce “funzione alta del teatro”, senza però dimenticare la funzione ricreativa, documentaria o di massa, artistica nonché didattica. Era, e deve continuare ad essere un “teatro d’arte per tutti”, così come volevano Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Strehler, facendo suo l’insegnamento di Bertold Brecht, era convinto che il teatro non potesse cambiare il mondo, ma potesse cambiare gli spettatori. Il teatro infatti stimola la coscienza collettiva. Ma ciò non basta, il teatro ha bisogno anche di una politica finanziaria che lo promuova e non lo mortifichi, dovrebbe essere considerato attività vitale per un paese, attività produttiva che coinvolge centinaia di migliaia di lavoratori; penso non solo ad attori e registi, ma a costumisti, macchinisti, truccatori, scenografi…
A proposito, proprio quest’anno cade il centenario della nascita di Strehler. Che ricordo serba di lui?
Il mio rapporto con Strehler fu un rapporto di grande stima e affetto. Ha saputo vedere in me capacità e qualità che neanche io sapevo di possedere. Mi ha insegnato che il testo non può mai vivere disgiunto dal movimento, dal colore del suono, della parola.
Era severo con i suoi attori.
Lo era, ma nel 1987 dopo già alcuni decenni di repliche dell’Arlecchino potei finalmente ritenermi soddisfatto: Strehler mi disse: “Tu invecchi, ma il tuo arlecchino è sempre più giovane. Come fai?”. Detto da lui che non era mai contento ed era sempre alla ricerca del meglio…
E per quanto riguarda l’Arlecchino?
Strehler fu un genio, restituì vita e sostanza scenica al testo goldoniano coniugando studio, arte e artigianato. Lo spettacolo infatti fonde il genio drammaturgico di Goldoni con quello scenico di Strehler che sfiora la magia e supera le barriere di cultura, lingua o tempo. Con lui ho capito cosa fosse Arlecchino e cosa fosse la commedia dell’arte. Buon compleanno Maestro, ovunque tu sia.
Furbizia, fame atavica, una certa dose di fatalismo e fannullaggine… “Arlecchino servo di due padroni” rappresenta gli italiani?
Il rapporto tra le persone non è mai cambiato: c’è chi comanda e chi deve ubbidire, chi mangia e chi muore di fame, chi è ricco e chi non ha neanche “un quattrin”. Ai tempi di Goldoni come oggi, in Italia c’era e c’è Arlecchino, eccome se c’è. È colui che ha comunque la forza di vivere e per quanto possibile di essere felice. È colui che non si arrende e con l’ingegno supera imprevisti, con la purezza del cuore riesce a vedere il mondo con occhi curiosi e speranzosi.
Cosa ha imparato da questo rapporto così duraturo, tanto che non si riesce a pensare ad Arlecchino senza pensare a lei, e viceversa.
Nel mio privato non potrei essere più lontano dal carattere di Arlecchino e questo mi ha sempre consentito di vederlo e analizzarlo da fuori, perché dall’esterno le cose si vedono e si capiscono meglio. Ma comprendo che agli occhi degli spettatori per molti decenni, Arlecchino potesse essere Ferruccio Soleri, ma Soleri non è mai stato Arlecchino.
L’attore moderno vive anche di vanità. Per fare Arlecchino bisogna invece indossare una maschera. Che rapporto ha avuto con la sua “maschera”?
Una volta Beppe Barra circoscrisse la questione che mi riguarda in modo perfetto: “L’attore è molto narciso, ama essere riconosciuto, ama mostrarsi, essere fermato per strada… Ferruccio ha indossato per una vita la maschera che gli ha precluso una delle peculiarità dell’attore, riuscendo tuttavia a diventare il più grande Arlecchino di sempre e, nonostante tutto, ad essere riconosciuto”. “Sfido qualsiasi attore – proseguì – me compreso, a privilegiare la maschera al proprio viso. Il mondo lo ringrazierà sempre”.
Il ruolo dell’Arlecchino necessità di una preparazione fisica incredibile, lei lo ha portato in scena fino a pochi anni fa. Immagino i sacrifici…
Costanza, dedizione, passione, professionalità e un buon DNA mi hanno permesso di rimanere in scena fino all’età di 86 anni. Anche oggi faccio stretching tutti i giorni. Mi risparmio solo di allenare il fiato su e giù per le scale di corsa, come ho fatto per tutta la vita.
Lei spesso ha raccontato alcuni aneddoti della sua vita. Incontri memorabili, successi assoluti, perfino imprevisti… Qual è il più incredibile?
Eravamo in Etiopia, sull’aereo pronti a decollare, a un certo punto, in modo sbrigativo, ci fanno scendere. Pensiamo spaventati a una bomba, o a qualcosa del genere, un dirottamento… Invece, volevano consegnarci una medaglia al merito.
Come fu la prima volta che si trovò a recitare Arlecchino?
Fu in America durante una tournée. I sindacati americani richiedevano, per le rappresentazioni con interprete assoluto, che almeno una di queste fosse recitata dal sostituto. Il direttore di sala, prima dell’apertura del sipario, annunciò che quella sera il grande Marcello Moretti sarebbe stato sostituito da Soleri. In platea si levò un brusio assordante. Ero dietro le quinte già in posizione e mi caddero le braccia. Paolo Grassi mi urlò: “Ferruccio, perdio, su le braccia!”, Partii ma per buona parte della rappresentazione non capii cosa mi girasse attorno. Poi intuii che il pubblico era con me. E fu gioia pura.
E l’ultima volta?
Può sembrare strano, ma non è stato un distacco traumatico. Forse cominciavo a sentire la stanchezza. E poi la mia famiglia, moglie e figli, mi ripetevano all’unisono che era bastato Molière a morire in scena.
Cosa direbbe a un giovane attore che volesse intraprendere la carriera di Arlecchino.
Che non è una passeggiata e che richiede molta dedizione, studio e attitudine.
Ha ancora senso fare teatro di tradizione?
La domanda è mal posta perché relega la Commedia dell’Arte a mero teatro di tradizione. Lei definirebbe Shakespeare teatro di tradizione? Non credo… quindi mi permetta di cambiare angolo. La Commedia dell’Arte ha le sue radici nella tradizione popolare teatrale italiana del XVI secolo. Già due secoli dopo, con la riforma goldoniana, però risorge e rinasce mettendo in scena la realtà dell’epoca. Da allora, non è mai smesso di essere rappresentata. Il punto non è se si possa fare o meno questo genere di teatro, ma come farlo. Lavoro sul testo, costumi, interpretazione e regia possono restituire attualità a qualsiasi genere di teatro, nato per rappresentare l’essere umano. Strehler ha certamente modernizzato il testo di Goldoni, ma soprattutto lo ha reso vivo, umano. Per Strehler il teatro era “memoria vivente” e la commedia dell’arte è una delle fondamenta perché travalica ogni barriera di cultura, lingua, tempo. Cosa c’è di più contemporaneo dell’abbattimento di ogni tipo di barriera? Per questo, dico che non solo ha senso fare la commedia dell’arte, ma che ce ne è bisogno oggi più che mai.