Pupi Avati: “Uno scandaloso amore con Pozzetto come non l’avete visto mai”

0

INTERVISTA PUBBLICATA SU CULTURAIDENTITA’ – NOVEMBRE 2020

Pupi Avati, classe 1938, ha ancora voglia di mettersi in gioco, con nuove idee e nuovi progetti. Il suo ultimo film (Lei mi parla ancora, n.d.r.), come tanti, è bloccato, “in fila come treni che devono entrare in stazione”, secondo la sua metafora. Il maestro ne ha parlato con noi, raccontando anche come sta vivendo questo momento storico particolare e complesso.

Maestro, a che punto è il suo ultimo film?
Fermo, come moltissimi film che si sono fatti ultimamente, di cui alcuni destinati al Natale. Consideri che i mesi di novembre, dicembre e gennaio sono i tre mesi in cui la raccolta a livello finanziario e quindi gli incassi rappresentano il 50% di quello che è l’incasso dell’anno, può rendersi conto di quale sia il danno per l’intera industria cinematografica. Ci sono moltissimi film oltre al mio che, non potendo uscire, sono in fila come i treni che devono entrare in stazione, però tutti i binari sono occupati: dovendo creare una sorta di ordine dal momento in cui riapriranno le sale (perché prima o poi riapriranno), chissà quando sarà possibile vedere questi film. Qualcuno ha deciso addirittura di bypassare la sala cinematografica, ma questo è un peccato, perché in questo modo la gente si disabitua ad andare al cinema.

Giusto secondo lei chiudere cinema e teatri?
Dopo il primo lockdown ci fu una ripresa, malgrado tutte le nuove disposizioni, ma fu comunque molto complicato, perché le sale continuavano ad essere abbastanza disertate. La sala cinematografica è uno dei luoghi più sicuri che ci possano essere, perché con le presenze limitate, la separazione tra le poltrone e la sudivisione degli orari degli spettacoli sicuramente non si corre lo stesso il rischio quando si sale su una metropolitana o su un autobus. Il mio film vivrà la penalizzazione di tanti altri film, d’altra parte non posso essere solo io a lamentarmi, la situazione è dovuta al Covid ed è grave, per cui si può capire.

Di cosa parla il suo film?
Il mio film è una storia scandalosamente d’amore, scandalosamente sentimentale: racconta un matrimonio di 65 anni, quello del papà di Elisabetta e Vittorio Sgarbi che, dopo aver perduto la moglie, raccontò questa storia in un libro: lui era un vecchio farmacista di Rho Ferrarese che trascorreva molte giornate della sua vita a raccontare la sua storia a un giovane scrittore e quindi il libro è stato scritto insieme a un ghostwriter. Nel mio film ho raccontato il rapporto tra due generazioni così diverse, il giovane scrittore interpretato da Fabrizio Gifuni e il vecchio farmacista interpretato da Renato Pozzetto, il che è una grande novità perché Pozzetto non ha mai fatto un film drammatico in tutta la sua lunga carriera e non faceva un film da molti anni.

Cosa pensa delle misure di contenimento del Covid-19?
Le ritengo molto necessarie e non riesco a capire come ci si scandalizzi ogni tanto del comportamento degli italiani. Io vivo in una città come Roma, che può essere un’unità di misura per capire il comportamento degli altri e vedo che tutte le persone che incontro per strada e nei luoghi pubblici hanno la mascherina. Non so cosa accade di notte perché non esco, ma da quel che mi risulta il comportamento degli italiani è encomiabile.

Qual è la sua città identitaria, quella alla quale è più legata la sua storia?
Un borgo a cui sono legato è Sasso Marconi, da dove ha avuto origini la famiglia di mia madre e il luogo sull’Appennino tosco-emiliano da cui è partito mio nonno quando andò in Brasile: è il luogo in cui mi sono state raccontate le favole quando ero bambino, in cui sono successe tantissime delle cose della nostra famiglia. Se dovessi raccontare una saga della mia famiglia dovrei fare un continuo riferimento a Sasso Marconi.