Davvero il problema dello spettacolo italiano è Sanremo? Davvero la partecipazione di qualche centinaio di spettatori pagati, quindi lavoratori, sarebbe uno schiaffo a tutti quelli che a teatro non possono andare da un anno? Davvero un teatro aperto, l’Ariston, adibito a mera location per lo show televisivo nazionalpopolare rappresenta un affronto al mondo del Teatro, che grida col forcone «Se aprono l’Ariston allora anche noi».
Perché a Roma c’è una situazione probabilmente più imbarazzante, particolare, originale e forse controversa, che però non ha suscitato l’ira dell’ambiente. Intanto va ricordato che a Roma, Capitale d’Italia e vetrina del Paese a livello internazionale per il suo patrimonio artistico, architettonico e museale si insedia in queste ore una nuova assessora alla Cultura, Lorenza Fruci che, al di là della sua passione per il burlesque e il suo scarno curriculum, dichiara: «dobbiamo guardare al nostro futuro con speranza, e la cultura sarà lo strumento di cui avremo bisogno maggiormente per guardare avanti, per riprogettare il nostro futuro», a pochi mesi dalla fine del mandato della giunta Raggi e con una situazione pandemica in corso (potrà fare ben poco e programmare nulla).
In questo scenario, con la Cultura a Roma passata di mano con un colpo di spugna (la Cultura sta a Roma come la Finanza a Milano, con evidenti ricadute ed interessi nazionali), c’è la questione Teatri di cui sopra, con la situazione appunto del tutto singolare del Teatro di Roma, lo Stabile tra i più prestigiosi d’Italia.
Da alcuni mesi a questa parte il presidente Emanuele Bevilacqua e i direttori artistici Giorgio Barberio Corsetti e Francesca Corona hanno deciso di dar vita a residenze artistiche coinvolgendo compagnie da tutta Europa. Un percorso già iniziato nei mesi scorsi che vedrà nel mese di febbraio alternarsi sei nuovi progetti tra cui una collaborazione internazionale a cura del Centro Dramatico Nacional di Spagna e in collaborazione con la Reale Accademia di Spagna a Roma, con quattro drammaturghi spagnoli in residenza e un programma di incontri con artisti e collettivi.
Ma questi incontri dove avverranno? L’attività nella filiale dell’Argentina, il Teatro India, spazio di recupero dedicato alla scena contemporanea nel quartiere Ostiense (per i non romani, quello del Gazometro dei film di Ozpetek per intenderci) lavora in tutti questi mesi a porte chiuse e senza possibilità che lo spettatore possa assistere in streaming alle performance o a parte di esse.
Peccato, perché gli spettatori a digiuno da un anno avrebbero pagato per poter vedere certe compagnie esibirsi, seppur soltanto assistendo in remoto a prove generali, performance, residenze artistiche e adattamenti. A dire il vero hanno già pagato il biglietto, perché lo stipendio ai 70 dipendenti del Teatro di Roma più gli emolumenti agli attori, registi, ballerini, coreografi e drammaturghi invitati (di cui non vi è traccia sul sito, neanche nello spazio gestione trasparente dell’amministrazione) viene ovviamente pagato dalle tasse dei cittadini, romani e non solo, visto che anche il Mibact oltre a Comune e Regione Lazio sovvenzionano e affiancano le produzioni.
Possibile che uno spettatore-cittadino (non solo romano) non possa partecipare anche solo pochi minuti alla performance a porte chiuse avendone di fatto pagato già il biglietto? Possibile che, prendendo il solo mese in corso di febbraio, su sei spettacoli in scena, a porte chiuse, una sintesi di ognuno di questi non possa essere trasmesso in streaming? Con la consapevolezza che non si tratta di uno spettacolo “perfetto” e finito ma degli “appunti” e un “aspettando” i vari Hedvig o Darwin Inconsolabile, o addirittura il progetto performativo di Marta Olivieri che, con Trespass/Processing An Emerging Choreography, apre lo spazio e il tempo alla contemplazione per indagare la moltiplicazione dello sguardo e l’emersione di un corpo, attraverso l’assorbimento e la restituzione, servendosi della coincidenza ma non escludendo la discrepanza, in cui due interpreti abitano lo spazio osservando il circostante con l’obiettivo di restituirne una interpretazione.
Per carità, non fraintendeteci, nessuno dubita che ciò avvenga, figuriamoci. Ma con le porte chiuse e senza streaming solo loro sanno quel che fanno senza alcun tipo di confronto. E allora uno si chiede: c’era bisogno di farli venire a Roma, in piena pandemia con il rischio di essere contagiati, da mezza Europa questi artisti per farli esibire lontano perfino da connessioni online? Eppure tutta l’area è coperta da un segnale wi-fi potentissimo, uno dei primi siti wi-fi free dell’allora Provincia di Roma a guida Nicola Zingaretti.
La responsabile della comunicazione del Teatro Stabile di Roma, la gentilissima Amelia Realino, ci ha scritto: «Le residenze artistiche non prevedono la presenza dello spettatore, neanche in remoto, sono momenti intimi in cui gli artisti non vogliono essere disturbati». Ma quanto ci costano questi “momenti intimi”? Perché, con un vuoto cosmico di offerta culturale, gli artisti non possono fare un’eccezione e dedicare dieci minuti della loro residenza per raccontare allo spettatore famelico di teatro la loro idea di messa in scena, “regalandoci” momenti inediti della loro performance?
Noi, dietro i nostri pc e tablet, lo promettiamo, lasceremo i microfoni spenti e non disturberemo le esibizioni e la loro concentrazione. Forse il Teatro di Roma potrebbe valutare questo compromesso, vista la situazione distopica nella quale da un anno a questa parte siamo tutti precipitati. Tanto gli artisti quanto gli spettatori.