ARTICOLO PUBBLICATO SUL NUMERO DUI CULTURAIDENTITA’ IN EDICOLA
La diatriba su quale arte sia superiore tra pittura e poesia è antica, nonostante i greci e soprattutto Platone non amassero troppo gli artisti e neppure i poeti che imitavano la realtà, essendo la realtà già un’imitazione alquanto fallace delle idee prime. Orazio qualche secolo dopo risolse la questione con il celebre “ut pictura poiesis” che sta a dire che la pittura è come la poesia e la poesia come la pittura. Su questa massima si è fondato il rapporto letteratura-arte, essendoci nella storia infiniti casi di illustri pittori che rappresentavano nei propri quadri storie tratte dai libri, o di scrittori che si impegnavano in quella che viene definita ekphrasis, cioè nella descrizione con parole di un quadro; e più in generale, di poeti che oltre a scrivere anche dipingevano, spesso modestamente, vedi Eugenio Montale, o di pittori che poetavano con buona predisposizione, tipo Michelangelo.
In ogni caso, i risultati del connubio pittura-poesia non sono mai stati eclatanti, perché lo scrittore rischia di essere verboso nel descrivere il quadro che invece ha la forza di apparire alla vista tutto in un colpo, mentre il pittore risulta didascalico quando vuole interpretare un testo e al massimo finisce per essere un buon illustratore.
La difficoltà aumenta se l’opera a cui ci si riferisce è densa di contenuti e, di per sé, già di immagini immaginifiche, come nel caso della Divina Commedia di Dante che, è scontato dirlo, ha stimolato schiere di artisti, da Salvador Dalì a Gaetano Previati, da Rodin a Dante Gabriel Rossetti, passando per Ingres, perfino Boccioni, soprattutto nel tentativo di inquadrare alcune delle scene più famose: spesso e volentieri quella di Paolo e Francesca, mai però riuscendo a sintetizzare le ineguagliabili strofe, una manciata di versi epocali con cui Dante disse in modo definitivo dell’innamoramento.
Più convincete appare invece la ritrattistica dedicata al sommo poeta che fu raffigurato tra i tanti da Giotto, da Botticelli che ne fece un’icona, da Bronzino, da Signorelli, da Raffaello, da Odilon Redon, fino ai contemporanei, per esempio da Giuseppe Veneziano che nel suo stile piatto ultrapop (si veda la copertina di CulturaIdentità) lo raffigura munito di chitarra amplificata nel momento dell’assolo come un moderno divo del rock, alla Keith Richards.
Abituati alle illustrazioni storiche di Gustave Doré, tutti i tentativi successivi sono risultati modesti, forse perché avvicinarsi alla Divina Commedia necessità di elevata cultura letteraria e non solo pittorica. Per questo motivo, nel settecentesimo di Dante, attendiamo con fiducia l’opus di Agostino Arrivabene, esponente tra i massimi della figurazione internazionale e raffinato simbolista, che sarà pubblicato in autunno da Hapax Editore in una nuova edizione della Commedia con i commenti al corredo iconografico della filologa Federica Maria Giallombardo.
Le anteprime non lasciano dubbi sulla capacità di Arrivabene: il canto XIII, dove nella selva dei suicidi gli uomini sono trasformati in alberi sui cui rami le orrende arpie fanno i loro nidi, permette al pittore lombardo di dare sfogo alla sua straordinaria visionarietà, tra accenti nordici goticheggianti e la definizione del segno impeccabile, tipica del grande figurativo.