In questa forzata asocialità il teatro ci salverà

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ilgiornale.it

Nella totale indifferenza dei più, la cultura si ammala; ma quando persino le istituzioni la abbandonano, la cultura la si vuole condannare al letto di morte, con al suo capezzale attori, musicisti, ballerini, registi, direttori artistici, doppiatori e sceneggiatori; educatori, in una sola parola. Perché sono educatori, sì, che li considerino o no tali i grandi fautori dei DPCM asettici e i piccoli politicanti dei diritti inalienabili a mesi alterni. Ma qualcuno non ci sta, alla morte della cultura, e si fa portavoce di una testimonianza condivisa parlando, anzi, nel pre-intervista, non di rabbia cieca ma di “rabbia incanalata”, di “mediazione energica” tra il problema e la soluzione, con grande pragmaticità di fondo nel pur romantico contesto di idealismo artistico. Giuseppe Abramo è un attore, regista e autore calabrese “naturalizzato” romano: si forma come attore e performer presso le Accademie “Corrado Pani” (diretta da Pino Insegno) e “Ribalte” diretta da Enzo Garinei. Calca palcoscenici nazionali ed internazionali e lavora con vari registi tra i quali Francesca Draghetti, Emanuele Merlino, Gianluca Ramazzotti, Vesa Manninen, Pippo Franco, Claudio Insegno, Daniele Salvo, Claudio Noce, Antonello Grimaldi.

Giuseppe, è venuto meno un diritto -quello al lavoro- in nome di un altro diritto -quello alla salute-. Il compromesso era possibile?

Il compromesso è sempre possibile: basta volerlo e dare il giusto peso alle cose. Il diritto alla salute è primario ed essenziale, ma lo è anche il diritto al lavoro come sancito dalla nostra Costituzione. Dunque il compromesso non solo è possibile, ma deve esserlo.

Il settore artistico avrebbe sicuramente avuto bisogno di un compromesso, in quanto è stato il meno considerato in assoluto. Secondo te perché?

Cercherò di essere sintetico: la cultura, purtroppo, in Italia viene messa al secondo posto, malgrado il nostro sia un Paese che potrebbe vivere solo ed esclusivamente di cultura (dai reperti archeologici, ai musei, a tutto il bagaglio del patrimonio artistico). La cultura però fa paura perché apre le menti delle persone, sia di destra, che di sinistra, che di centro e dunque a volte è meglio “spegnere” il motore della cultura a favore dell’economia e dei numeri. Ecco, i numeri. Il teatro, concretamente parlando, non immette nelle casse dello Stato delle grandi cifre; ma non è colpa del teatro, di chi lo fa e di chi lo frequenta, ma è colpa delle istituzioni che, secondo il mio modestissimo parere, non dedicano le giuste attenzioni a quello che potrebbe essere un altro grande bacino a favore degli introiti dello Stato, se fosse almeno un po’ sostenuto.

Il teatro è millenario, però. Resisterà?

Il teatro ha 2500 anni e risale all’Antica Grecia, quindi ancora prima di Cristo. È talmente antico e secondo me forte che resisterà per forza. Non so come e non so per quanto tempo, ma sicuramente ce la farà anche questa volta. Sarà però un po’ più difficile riportare le persone a teatro per una questione di paura e anche di semplicità perché purtroppo la nostra vita si è spostata sempre di più verso una modalità tecnologica, impersonale, anche un po’ fredda, se vogliamo, dei rapporti. Vedo che le persone fanno persino fatica a vedere un film in cui ci sono delle persone che si abbracciano senza mascherina: siamo allo shock perché è diventata normale l’assenza di contatto umano; il contatto umano ci sembra qualcosa di lontano, nonostante risalga a pochissimi mesi fa. La distanza sociale sta aumentando e a breve ci sarà un grandissimo bisogno di socializzare. E il teatro è proprio il luogo in cui, oltre a fare cultura, ci si confrontava con quelli che erano, diciamo così, i grandi problemi del genere umano e addirittura il luogo in cui si poteva trovare una risposta alle nostre domande quotidiane; ma ciò è impossibile su una piattaforma fredda o senza fisicità. Il teatro ha bisogno di contatto col pubblico, umanità, calore e scambio.

A tal proposito: cosa rappresenta per te il contatto col pubblico?

Il contatto col pubblico è essenziale per me: io sin da quando ero piccolo volevo fare l’attore di teatro, esplicitamente. Non ho mai detto volessi essere attore di cinema o di fiction (o delle allora “sceneggiate”): io volevo fare l’attore di teatro perché adoravo il contatto che veniva a crearsi, il lato umano, lo scambio di energia. Non sono il primo a dirlo, ma il flusso di scambio energetico che si crea tra attore e pubblico presente in sala è qualcosa di indescrivibile: dà tantissimo come attore e credo, ma è conclamato, dia tantissimo al pubblico perché si vedono persone in carne ed ossa che vivono un dramma o una narrazione simpatica e persino una situazione politica. Passamelo. Il teatro è anche politica, lo è sempre stato: ma con le persone, non coi cartonati, né con lo streaming.

Saprai sicuramente meglio di me che c’è un pubblico cui è stato vietato assistere a rappresentazioni teatrali e un pubblico cui è stato consentito assistere a trasmissioni televisive (in diretta o registrate). Cosa pensi di questo dualismo?

Fa male, ti fa sentire figlio di un dio minore. Tu vedi che il pubblico che sta assistendo ad un programma televisivo può farlo “in sicurezza” in quanto dietro ha sponsor e reti che lo sostengono e che quindi consentono di effettuare dei test cosiddetti “Rapidi” per far in modo che chi è presente sia sicuro. Ma ciò comporta dei costi che il teatro non può affrontare. Il teatro cerca di arrivare sempre a tutti, cerca di agevolare giovani, anziani, portatori di handicap e persone che non possono permettersi dei grandi budget: affrontando un test rapido (che credo ad oggi stia a 20-30 euro) sommato al prezzo del biglietto, il teatro sarebbe davanti ad una cifra inaccessibile o comunque per pochissimi, mettiamola così. In tv invece no, lì il giro dell’economia è molto più ampio. Si tratta di un’ingiustizia dettata dalle possibilità economiche degli spettatori. Il teatro dovrebbe essere alla portata di tutti, proprio come un servizio offerto dallo Stato, garantito in quanto terapeutico, profondo, fonte di risposte e di benessere; invece è scartato e soffre le limitazioni economiche che cerca di aggirare. Molti programmi televisivi addirittura pagano il pubblico, funzionano, è vero, ma non restituiscono la stessa profondità del teatro, né il benessere che il teatro procura all’anima e al cuore delle persone: cose però, forse, al secondo piano rispetto al portafogli, al giorno d’oggi.

Tu hai parlato di “ingiustizia”; io mi permetto di aggiungere “sociale”. Chi dovrebbe rimediare alle ingiustizie sociali nell’ambito artistico?

Sicuramente un problema, per essere risolto, non deve partire solo dal basso o solo dall’alto: ci deve essere un ricongiungimento tra le due parti, tra la parte governativa e la parte “artigiana”, chiamiamola così. Se non c’è un rapporto, se non c’è un confronto tra le due parti, non si può rimediare e l’ingiustizia sociale rimarrà tale. Se tra i lavoratori del cinema, teatro, musica, spettacolo e i ministri, il capo del governo e le varie commissioni non c’è un dialogo, allora la parte artigiana continuerà a soffrire e a chiedere e la parte governativa continuerà a prendere decisioni molte volte anche senza sapere quali sono le necessità degli artisti. Il confronto manca e manca da parecchio tempo!

“Una parte che soffre e che chiede”: sono espressioni molto forti. In questi mesi la tutela è stata praticamente nulla, questo è chiaro. Normalmente, invece, quanto si sente tutelato un artista come te?

Pochissimo. Pochissimo. Mi spiego: non esiste un albo degli attori. Perché non può esistere? Esiste un albo degli avvocati, degli architetti, dei medici, dei notai; non esiste invece nulla che certifichi la professione dell’attore. Un esempio velocissimo: se io voglio aprire un conto in banca e voglio una carta di credito, questa non mi viene concessa perché non do delle garanzie e perché non esiste la mia categoria. Io per la banca sono “altro” e lì devo mettere la crocetta: non ho nessun tipo di tutela. C’è l’Inps, ex Enpals. Prima avevamo una categoria tutta nostra (“Istituto nazionale per la previdenza dei lavoratori dello spettacolo”), ma adesso non c’è neanche quella: siamo rientrati nell’Inps che è qualcosa che gestisce tutti quanti i lavoratori di tutte quante le professioni del mondo, ma non è questo l’essere inclusi. Il problema è che non c’è alcun organo, tanto meno a livello sindacale, che ci tuteli effettivamente ad ampio raggio e in modo riconosciuto. Ci sono solo alcuni organi autogestiti, ma piccoli e dotati di pochissimo peso dal punto di vista della tutela dell’artista…

Adesso abbiamo parlato della pars destruens, di tutto quello che manca ed è mancato. Parliamo invece della pars construens: perché un artista dovrebbe essere tutelato? Che missione educativa ha?

Perché, checchè se ne dica, l’artista, il doppiatore, l’attore, il cantante, lo scenografo sono dei mestieri, sono dei lavori a tutti gli effetti. Classica è la domanda “che lavoro fai?”, cui si risponde “L’Attore!” e cui inevitabilmente segue il “No, io dico di lavoro vero!”. Il problema è proprio questo: non viene riconosciuto il nostro lavoro. E però, per essere riconosciuto, c’è bisogno di qualcosa che parta (e questa volta deve partire assolutamente!) dall’alto: qualcosa che riconosca una categoria. Non c’è un istituto, un organismo che vada effettivamente a far in modo che questa professione esista sotto gli occhi di tutti e non sia secondaria o suppletiva. La cultura non è qualcosa di superfluo e non deve essere così per il futuro, altrimenti ci ritroveremo ad essere più o meno come siamo oggi: diventeremo da uomini quali “animali sociali” ad animali completamente asociali, soli, che trascorrono le proprie esistenze resistendo o sopravvivendo. La cultura aiuta a vivere, invece: apre le menti, aiuta a crescere noi stessi, a crescere i nostri figli, a prendere decisioni. È una missione educativa, quella degli artisti, in quanto insegnano a comprendere meglio la vita e anche a vivere un po’ più in pace, con sé e con gli altri.

Un’ultima domanda, riallacciandomi alla forzata “asocialità”: come stai vivendo questo momento di vuoto? E, per dirla in un linguaggio a te congeniale, sarà alla fine, in qualche modo e nonostante tutto, un momento “catartico”?

Anche le catarsi hanno un inizio e una fine, come spero che sia per questo periodo. Finirà, prima o poi: non so quando, come e se grazie al vaccino o a un intervento divino. Ma le persone ne usciranno profondamente diverse e quando parlo di persone intendo tutti, dagli artisti a coloro che fanno lavori riconosciuti e “normali”. Tutti ne usciremo cambiati. Un aspetto che secondo me si sta sottovalutando è proprio il lato psicologico delle persone, il frangente umano che chi sta lassù e ci governa sta tralasciando e mettendo in secondo piano ed è qualcosa di gravissimo. Io mi rendo conto che le persone sono più arrabbiate, più incattivite: non hanno più possibilità di scambi e non solo perché non vanno a teatro. Quel lato umano mi preoccupa, perché l’umanità stessa ne risentirà e passerà altro tempo prima di tornare alla normalità o prima di trovare una “nuova” normalità; anche perché lo status quo ci porta a pensare che non per forza ritorneremo come eravamo prima del Covid, ma potremmo invece trovarci a vivere una nuova realtà alla quale tutti ci dovremo adattare per poter sopravvivere.