In quell’intercapedine delicatissima, fragile, eppure così abissale dello stare al mondo, si collocano, con irrequietezza assoluta formale e emotiva, i dipinti di Giordano Floreancig. Sopravvivono, sbilenchi, in uno spazio indecifrato che potrebbe chiamarsi “La ricerca, vana, della felicità”.
Si contorcono, i dipinti di Giordano Floreancig. Si contorcono su loro stessi e assumono sempre una posizione di protesta e inadeguatezza nei confronti del mondo. Sono capaci, per il solo fatto di esistere, di vomitarci addosso, tutte le loro angosce: che nient’altro sono se non le nostre stesse afflizioni e tormenti. Le nostre irrinunciabili pene. Non si parla del dolore: lo si vive e basta. O lo si urla. Questo fanno le tele di Floreancig: in un grido che squarcia le notti interiori di ognuno di noi, tuonano senza speranza. E lo fanno con intelligentissima e sottilissima ironia. Ci ghignano, ci scherzano come fossero tutti energici ignoti marinai di Antonello, ma con una chiave ancor più sarcastica e spudorata. Ognuno di loro sembra poter cadere da un momento all’altro nel vuoto dell’universo senza lasciare alcuna traccia.
Sguazzano, dolenti, nell’insensatezza della vita, grazie proprio a quel senso di inadeguatezza che li tiene vivi. Come accade ad ognuno di noi, puntualmente, nell’essere avvolti dal timore di non essere all’altezza del mistero rispetto alle domande sul senso enigmatico dell’esistere. Si straziano alla Francis Bacon, pensano come i personaggi di Lucian Freud e ti guardano come nelle immagini di Soutine. Il disagio, l’inquietudine, il dramma, la disperazione, per loro, sono solo fidi alleati. Degli strumenti per il non- raggiungimento della felicità: che guai a perseguirla, figuriamoci ad ottenerla!
Giordano Floreancig conferisce importanza alla materia di cui essi si compongono e, da ottimo narratore, provocatore e impertinente, regala parole alle sue immagini attraverso l’uso sottilissimo dei titoli. Occorre il silenzio, infatti, per perdersi con densa esperienza nella ferocia delle sue pennellate.
Occorre il silenzio perchè le creature a cui ha dato vita ti assalgono continuamente da ogni parte come in un continuo arrembaggio di euforica depressione a cui si sono felicemente, e inevitabilmente, aggrappati. Generano frastuoni che sembrano arrivare dai meandri dalle nostre più profonde meschinità e più intimi squallori. Giordano Floreancig le mette in tela queste dolenti note, sottolineando come siano minimo comune multiplo di tutti noi. La materia fuoriesce dalla tela: mimando un “idrante” della cosa artistica non si trattiene, non si autoinfligge regole: spontanea e febbrile, corposa e ironica, sta. Con enorme, sconfinata, fragilità.
Sarebbe stato scialbo essere felici, ci sussurrava Marguerite Yourcenar. E lo faceva in un continuum non solo con quel Victor Hugo che sottolineava come la malinconia fosse la felicità di essere tristi, ma anche, inconsapevolmente, seminando quel terreno su cui avrebbero poi germogliato gli arbusti irregolari, spaesati, sentimentalmente difformi, emotivamente aritmici, stravagantemente anomali, di Giordano Floreancing.
Non si può far altro, dunque, che augurare agli infelici di Floreancig di coltivare in eterno la loro sana tristezza, il loro completo disagio, la loro assenza di speranza in cui prendono vita grazie all’arte; mentre noi, stanchi, trafitti, a causa dell’impietoso sipario della realtà che cala su di noi, lentamente, quella stessa vita, la perdiamo.