Vesod, compianto tra spirito e materia

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Vesod, compianto tra spirito e materia
Vesod - Ricorda - Londra 2018

All’eredità surrealista del padre, il pittore e scultore Dovilio Brero, lo urban artist torinese Vesod ha aggiunto molta più metafisica.

Due, tre visi, che sono lo stesso viso, si mescolano alle nuvole. La luce entra di taglio da un’altra realtà. Di uno stesso attimo guardi presente passato e futuro.

La sua ultima opera è Compianto: tra spirito e materia e si trova a Padova, alla Torretta Codalunga vicino a Piazzale Mazzini. È nata all’interno del progetto Oculus (Giovani Operatori per la Creatività Urbana) e sarà presentata oggi 7 maggio.

L’arte vive di ispirazione?

In me c’è quel momento preciso, d’intuizione, in cui mi accorgo di ‘avere l’immagine’. Un momento che arriva da non si sa dove, dall’inconscio o chissà… E poi c’è un interscambio tra quest’intuizione e il lavoro progettuale: la fase di preparazione in cui, mentre sto dipingendo altro, mi capita di pensare al muro successivo. Come posso vederlo? In che prospettiva? Dopo che l’intuizione ha suggerito un’immagine, mi pongo delle domande e cerco di trovare una giustificazione logica per poter arrivare alla rappresentazione.

La storia della Cappella dipinta da Giotto è legata a quella dello Scrovegni, che volle farsi ricordare nei secoli attraverso il marchio della bellezza. Senti la mancanza di un  mecenate in rapporto al mercato dell’arte contemporaneo?

Nel mio lavoro, ci sono i rapporti con le gallerie d’arte, con cui ci si divide il rischio. Ci sono persone che fanno i mecenati in maniera estemporanea, perché, con il bombardamento d’informazioni a cui siamo sottoposti oggi, non può più esistere la figura del mecenate classico, che si appassiona a un artista in maniera esclusiva, punta su di lui, cerca di coltivare il suo talento. E ci sono i collezionisti, più o meno assidui. In generale, però, la possibilità di spostarsi molto più facilmente rispetto al passato ha reso meno necessario un ruolo come quello del mecenate. Il lato positivo di internet è che ci si può proporre e si può dare una circolazione molto ampia ai propri lavori, in maniera da raggiungere nuove possibilità in maniera autonoma.

L’arte nasce con una grande valenza didattica: doveva insegnare il mondo a chi non sapeva leggere né scrivere. Qual è il suo valore oggi?

Io credo in una sua funzione terapeutica. Ci sono molti artisti che cercano di educare la società. Io ho sempre preferito lasciare libertà di pensiero alle persone, non mi interessa suggerire come comportarsi. Non credo troppo nel bene o nel male: sono intimamente connessi. Quello che cerco di indagare, piuttosto, sono le sfumature, spesso complementari, dell’animo umano.

In quest’ultimo caso, per esempio, la mia idea era prendere l’esempio del Cristo che mi avevano chiesto di dipingere e dello Scrovegni che mi aveva incuriosito: due figure agli antipodi, che però possono ben rappresentare due componenti dell’uomo: il lato spirituale e quello materiale. Però lo Scrovegni, facendo dipingere la Cappella, ha lasciato un’eredità spirituale: chi osserva l’opera di Giotto inevitabilmente pensa, sogna, immagina, viene trasportato fuori di sé. E una figura spirituale come quella del Cristo si accompagna a un’eredità materiale, incarnata dalla Chiesa cattolica e da tutte le costruzioni edificate nei secoli. Nell’opera, quindi, si crea una circolarità simile a quella che vive nell’intimo di ognuno di noi.

Mi interessa questo universo di sfumature, che vanno dalla materia allo spirito, dal bene al male… E il movimento che queste sfumature creano.

Qual è il tuo obiettivo quando dipingi?

A un primo livello visivo, vorrei dare una sensazione eterea, di effimero, un’idea di leggerezza, una trasparenza quasi fantasmatica. A un livello più profondo, emotivo, mi piace che i disegni abbiano qualcosa di cupo, che non siano completamente sereni.

Tendo alla forma e alla leggerezza, ma mi porto dietro delle sfumature più cariche e buie. Cerco di bilanciare questi estremi e di raccontare me e le mie sensazioni per farle provare anche alle persone dall’altro lato della strada. Fare questo è anche un modo per cercare di dirsi la verità, parola enorme.

La tua arte conosce un inferno, un purgatorio e un paradiso?

Quando prendo in mano i colori e mi sento ispirato è il tempo della creazione piena: il primo momento paradisiaco. Il purgatorio vive di tutte le parti più dure della realizzazione di un’opera così grande: le indecisioni, lo sforzo fisico, la consapevolezza del fatto che manchi ancora molto alla conclusione. La burocrazia sarebbe l’inferno per me, ma fortunatamente non la gestisco io. Il vero inferno è il paletto dei tempi. Le interruzioni inevitabili, come in questo caso i temporali. I tempi troppo stretti. I committenti che pressano. Il secondo momento paradisiaco arriva quando hai finito e guardi il tuo lavoro. Il paradiso sono quei cinque minuti di soddisfazione. Prima di dirsi di no, che si doveva fare meglio, e pensare all’opera successiva.