E’ un rinnegato. Non lo dice di sé, lo dicono. “Lui” è Giampiero Mughini, “loro”, coloro che gli danno di rinnegato e che vengono scoperti nella pagine della sua ultima fatica letteraria, “Memorie di un rinnegato”, appunto, uscita per Bompiani. Daniele Capezzone l’ha intervistato sul quotidiano “La Verità” e, fra amarezze (“ho ricevuto dei messaggi in cui altri, che pure ritenevo amici, discutevano di un mio libro come se fossi un estraneo totale […] in questo mondo giornalistico, è più facile essere rivali che amici”), confidenze profetiche (“al mattino leggo cinque quotidiani, e mi sento quasi in colpa perché vorrei leggerne sette o otto. Non riesco a immaginare un mondo senza carta stampata. Sarà una nicchia, ma la “preghiera del mattino” ci sarà ancora a lungo”) e considerazioni sul Fascismo (“[…] devi ricostruire la fisionomia di un uomo reale, i suoi torti, le sue caratteristiche. Non un mostro: a meno di ritenere che fossero mostri quasi tutti gli italiani di allora. Ma mio padre, che era fascista, non era un mostro”), si ri-conferma come intellettuale fuori dal coro, non tanto e non solo per le sue affermazioni controcorrente, ma soprattutto perché, a dispetto del titolo del suo ultimo libro, lui non rinnega nulla. E forse questo gli è valsa una certa solitudine e forse anche una certa sensazione di inutilità a spiegare certi dati di fatto, come ad esempio il fatto che lui non fosse “uno di Lotta Continua”, ma semplicemente il firmatario affinché il giornale Lotta Continua potesse uscire. Intanto vi proponiamo questa sua intervista (di Davide Brullo, pubblicata dai nostri amici di “Pangea”) in cui, a proposito del ’68, non si smentisce dal suo essere “À rebours“. (Redazione)
Dettaglio oracolare. Numero 20 di Giovane critica. “Primavera 69”. Copertina. Faccione oleografico di Stalin, a mo’ di ‘santino’. Dai capelli perfettamente lucidi – degna parrucca di Elvis – s’eleva un fumetto: “Sarei splendido con le basette!!”. Il dettaglio ci dice l’incanto del ‘contesto’. Ragazzi sagaci, che leggono e che sanno (dalla copertina medesima s’innalza, verticale, sulla costa, la promessa dell’approfondimento: “due diverse concezioni della costruzione dell’organizzazione rivoluzionaria”), devoti al ribaltamento dei valori, che spiantano i ‘potenti’ e i potentati – dai politici ai padri, dai parlamenti all’istituto familiare – con un guizzo, direi, ‘dada’, da lingua fuori. Il Sessantotto. Ora. Gli anniversari vanno usati come una cassa di vodka, strabiliandosi di malinconia. Oppure come barattoli di latta sulla testa del vicino di casa: vince chi li disintegra – barattolo&vicino – con una fucilata. Eppure. Ha ragione Giampiero Mughini, che nel suo personale mémoire e reportage a posteriori e anamnesi storica, Era di maggio (Marsilio 2018, pp.128, euro 16,00; indicativo il sottotitolo: “Cronache di uno psicodramma”) esordisce così, “Già trascorsi cinquant’anni, porco mondo. Cinquant’anni che non la smettiamo di ruminarci sopra. Su quelle tre inaudite settimane di un dolce e furibondo maggio parigino”. Nel cuore di quell’inaudito, a Parigi, 50 anni fa, Giampiero Mughini, 27 anni – allora – da Catania – guai a dirgli “catanese” – direttore e fondatore di Giovane critica, “una delle riviste che hanno covato e modellato il Sessantotto” (parole sue), come si dice, c’era. Così, con lungimiranza ironica (esempio: nel capitolo Quando mi arrivò la lettera della Br, per ‘Br’ s’intende “Bionda Ragazza”), senza la marcetta dell’accademico o il valzer del nostalgico, Mughini ci penetra in quei giorni, ne allestisce per noi, con nomi e tensioni e cagnara (tra situazionisti, maoisti, anarchici, “le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”), la scenografia. Proprio questa è la parola. ‘Scenografia’. Il Sessantotto francese, in fondo, fu un memorabile coup de théâtre. Mughini insiste ferinamente sulla dimensione ‘teatrale’ dei maggio francese, sulla sua natura di happening – che andava tanto di moda, allora – di mobilitazione free jazz, di colto fancazzismo (un paio di capitoli, Marxisti? Sì, ma alla maniera di Groucho Marx e Non avevamo nulla da dire, volevamo dirlo a tutti i costi, sono piuttosto indicativi). Una fotografia blocca un ragazzo, riccamente vestito, che impugna un sampietrino. La dida di Mughini è esplicita: “Un ragazzo che potrebbe essere un ballerino da quanto è elegante sta lanciando un pavé”. Dalla messa in scena, poi, s’è passati al fenomeno di massa; dalla boutade al tradimento; dal ribaltamento dei valori alla riabilitazione delle poltrone; dalla lotta d’amore alla lotta armata. Anche dentro queste ferite – e sulla distanza tra cosa è diventato il Sessantotto francese e cosa è stato quello ‘all’italiana’ – Mughini penetra, con tenace libertà.
Arriviamo al Sessantotto. In diversi passaggi del libro metti in rilievo la dimensione ‘teatrale’ del maggio francese. Ne cito alcuni. “Che ci fossero delle bellissime ragazze lì nel bel mezzo dei cortei era un formidabile strumento di comunicazione e attrattiva massmediatica”; “Nelle prime settimane di maggio gli scontri e le violenze di strada ebbero a Parigi l’andamento di una pièce teatrale”; “eravamo tutti degli splendidi attori”; “Uno che fra cento anni guardasse quella foto, penserà che si tratti dell’embrione di una rivoluzione socialista o non penserà piuttosto a una perfetta rappresentazione teatrale?”. Allora, cosa è stato il ’68 francese? Una meravigliosa ‘messa in scena’?
È stato innanzitutto uno show, sì, uno spettacolo teatrale sublime e irriproducibile. Lungo quei viali infiniti di una delle città più belle del mondo, scorrazzavamo i 130mila studenti universitari provenienti da tutta Europa. Nei cortei c’erano neri americani alti così, sudvietnamiti piccoli così, tedeschi come Dany Cohn Bendit, italiani che venivano da Torino o da Bologna o da Catania (il sottoscritto), ragazzi e splendide ragazze del nord Europa.
Parole tue. “Di quel pandemonio che vi sto raccontando non rinnego nulla di nulla, né un gesto né una parola”. Ora, però, ti dici “Un liberale che di risposte compatte ai problemi dell’oggi non ne ha nessuna, uno che preferisce tirarsi indietro e sorridere dell’imbecillità talmente diffusa”. Insomma, abiti la contraddizione coabitando con un egotismo antagonista?
Non rinnego nulla delle parole o dei gesti che ho fatto in quelle tre settimane del “joli mai”. Detto questo non sono più uno studente acerbo alla ricerca di un destino e di un’identità e bensì un cittadino repubblicano dell’Italia del terzo millennio che trema d’angoscia per il futuro del suo Paese. Un futuro le cui topografie possibili nulla hanno a che vedere con quelle degli anni Sessanta.
Chi ha fatto il ’68, alla fine? I giovani, i figli di papà, gli operai, i partiti? Tu scrivi: “Le sfumature di rosso non erano cinquanta ma duecento”. Che cosa significa? Chi è il personaggio emblematico del Sessantotto?
Non c’è un personaggio emblematico del Sessantotto francese. Ce ne sono molti. Ci sono i militanti dei “groupuscules” trockisti e maoisti, c’è un Cohn-Bendit per tre quarti anarchico e per un quarto marxista alla maniera della scuola di Francoforte (Adorno, Marcuse), ci sono quelli irrorati dalla cultura e dagli atteggiamenti situazionisti (i cui libri sono i più venduti del tempo), ci sono i tantissimi comprimari quale il sottoscritto, uno cui le giornate del “joli mai” divennero improvvisamente più luminose. Ci sono i figli dei ministri gollisti e ci sono studenti che s’erano guadagnati una borsa di studio e che mangiavano al prezzo di pochi franchi alla Cité Universitaire. E poi ci sono gli operai che lavoravano alla catena di montaggio della Renault, e quello è tutto un altro discorso.
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