Fabrizio Ferri, fotografare le emozioni

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La fotografia è un’operazione progressiva della testa, dell’occhio e del cuore, dove siamo chiamati a sorprendere la realtà con quel quaderno di schizzi che è il nostro apparecchio fotografico, ma non a manipolarla, ne durante le riprese, né tanto meno nel nostro laboratorio con qualche ricetta fatta in casa“. Henri Cartier- Bresson

In fondo fotografare – disegnare con la luce- non è altro che fermare un attimo per sentire l’alito di vita. È come aprire una finestra facendo entrare la luce, il sole per immergersi nell’inedito, nel non ancora visto, nel non ancora conosciuto. Inseguendo l’idea dello Streben: un inesauribile impulso a superare la linea dell’orizzonte, a porsi una meta sempre nuova, fresca e vitale. Energia vibrante, lucente e fluorescente anche nei pensieri più cupi e chiusi. Ecco l’artista che solleva la polvere del tempo, svelando il mistero, traendo forza dall’assoluto. Le foto non sono oggetti, sono chiavi per un altrove, verso una trascendenza non palesata dai nostri occhi. Questa è la poetica di Fabrizio Ferri, così come accade nel miracolo dell’arte, ogni suo scatto diventa senza tempo, eterne presenze silenziose sullo sfondo di qualcosa senza fine. Come nelle cattedrali gotiche con le guglie proiettate verso il cielo.

Nato a Roma, autore di fama internazionale ed artista eclettico di stampo rinascimentale, Fabrizio Ferri è musicista, fotografo, regista, scrittore e imprenditore. La sua storia di fotografo inizia appena diciassettenne, in seguito si è trasferito a Londra e a New York lavorando per i magazines di moda più importanti al mondo: Vogue, Harper’s Bazaar, Marie Claire, Elle, Vanity Fair. Come giovane imprenditore fonda ‘Indusria’ prima a Milano nel 1983, poi a New York dal 1991. Entrambe rappresentano il primo complesso al mondo di studi polifunzionali fotografici con servizi digitali e discografici. Nel 1997, istituisce ‘L’università dell’immagine’ primo centro di ricerca sul percorso creativo sinestetico a Milano. Nel 2001, Ferri crea il marchio ‘Eataly’ venduto ad Oscar Farinetti nel 2002.

Ha ritratto le icone degli ultimi decenni: Isabella Rossellini, Luciano Pavarotti, Roberto Bolle, Julia Roberts, Susan Sarandon tanto per citarne alcuni.

Qual è il suo primo ricordo con la macchina fotografica?

Intorno ai diciotto anni, un mio compagno di scuola che aveva la passione per la camera oscura, aveva ricevuto in dono un ingranditore e se ne era costruita una a casa, pur senza fare foto. Per questa ragione aveva chiesto a noi compagni di scuola di fare delle foto da poter stampare. Così andai alla manifestazione del primo maggio con una Contax presa in prestito da mio zio – che non sapevo assolutamente usare. Non avevo mai fatto una foto in vita mia, in famiglia non si usava scattare foto e non c’erano macchine fotografiche in casa. Alla manifestazione, ovviamente, c’era tanta gente. All’improvviso, vidi un fotografo con diverse macchine appese al collo e mi avvicinai chiedendogli aiuto su come usarla. Dopo un gesto di scoramento, decise di aiutarmi. Impostò la ghiera dei tempi dicendomi di non toccarla più e selezionò il valore più alto sulla ghiera dei diaframmi, con la raccomandazione di farle fare uno scatto decrescente ogni ora. Guardai l’orologio e ringraziai. Si girò augurandomi buona fortuna.

E poi, ha scattato la sua prima foto in quell’occasione?

Lì per lì – in realtà – non sapevo cosa fotografare in quella folla, fino a quando non vidi un uomo: era chiaramente un contadino, dal volto segnato, che guardava verso l’alto, e grazie alla luce morbida aveva gli occhi, già chiari, luminosissimi. Portava sulle spalle un bimbo piccolo, sicuramente il figlio, il quale aveva appoggiato il mento sulla sua testa: quindi due teste e due generazioni che guardavano nella stessa direzione, verso l’alto. Accanto all’uomo c’era anche la moglie che lo teneva stretto sotto braccio con la testa appoggiata alla sua . Alla vista di questo trittico provai una grande emozione. Presi la macchina e riuscii in qualche modo a metterla a fuoco e a scattare. Il mio amico stampò poi quell’immagine facendomene dono. I miei lasciarono la foto in salotto sul tavolo, quando un amico giornalista di Paese Sera che venne ospite a cena, la vide e mi chiese di comprarla per affiancarla ad una serie di articoli di costume. Così vendetti la foto per 50 lire.

Cosa era successo? Avevo preso una macchina fotografica che non sapevo usare, uno sconosciuto aveva posato per me senza saperlo, e si era quindi creata una circostanza che mi aveva procurato una forte emozione ed io l’avevo colta fotografandola.

In realtà, avevo “fotografato” quell’emozione. Se sei in grado di far provare la stessa emozione che hai provato a qualche d’un altro, la puoi condividere tramite una fotografia e c’è il caso che anche ti paghino.

Sensazione, istinto e occhio possono essere scissi nella sua fotografia?

Assolutamente no. Lì si innesca un meccanismo fatto di mestiere, basato sulla conoscenza di questi meccanismi ed anche di te stesso, che ti permette di produrre per poi riprodurre queste emozioni e farne un mestiere. Capita che non sempre queste occasioni che ti emozionano le trovi davanti ai tuoi occhi o le riconosci davanti a te. A volte, questa situazione la devi creare, come capita in studio.  Ma lo devi fare credendoci altrimenti è semplicemente una finzione.

La sua idea di felicità. Anche in fotografia.

Sono convinto che l’infelicità non aiuti ne’ nella vita privata e ne’ tanto meno nella fotografia, quindi nella creazione. Non aiuta un artista ad esprimersi e raccontare. L’infelicità ti chiude e ti rende solo. Anestetizza i sensi. Non è vero che l’artista debba essere maledetto o sofferente. Non è da lì che nasce qualche cosa di luminoso da condividere. In realtà la produzione migliore dell’artista avviene nei momenti di serenità. Perché è lì che si libera l’atto creativo ed il principio di felicità si troverà proprio lì. La felicità si trova nella libertà dalle contingenze negative della vita.

Dalla cronaca alla moda: cosa le è scattato dentro? Come mai questo cambiamento?

A 18 anni ero un reporter molto affermato, con degli ottimi clienti, dal Mondo, l’Espresso, la terza pagina del Messaggero. Alla fine, passavo più tempo a vendere le foto che a scattarle. Quindi, mi misi a cercare un mercato in cui mi avrebbero potuto dare delle foto su commissione, in cui ti pagano le spese senza doversi preoccupare di nient’altro che il solo lavoro. Così approdai alla moda. Negli anni ’70, la moda entrava dentro l’obiettivo da sola. Le donne vibravano di musica, di contemporaneità, di moda, lì c’era meno grigiore che da noi. C’erano stati i Beatles, non c’erano più tante battaglie sociali. E tra tante foto di operai e casalinghe fecero capolino queste foto curiose di ragazze luminose e vestite colorate – la moda entrò nel mio obiettivo. Entrai da un giornalaio e presi una rivista di Vogue, trascrivendo l’indirizzo su un foglio di carta, e restituendo la rivista. Con il mio book nella borsa, presi il treno per Milano giungendo a piazza Castello, 27, l’indirizzo di Vogue. Ero ignaro di quello che stavo facendo. Non avevo un appuntamento con l’Art Director, non sapendo neanche che si chiamasse così il responsabile per i servizi. Non mi fecero accomodare, ma mi misi a aspettare in redazione fino a quando, diverse ore dopo, uscì un ragazzo con l’aria scocciata che era Roberto Carra, il direttore artistico di allora. Senza guardarmi aprì il mio book restando impietrito. Si aspettava che fotografassi le modelle ed invece vide solo operai ripresi dall’alto che suonavano dei tamburi di latta, un’anziana signora nell’atto di scolare la pasta.

Proseguendo nello sfoglio del book giunse sino alle foto di Londra. Finalmente,  guardandomi, mi disse : “la donna di Vogue è una donna che non fuma, non scopa e non dice parolacce”. Allora gli risposi sorridendo che sarei andato via, richiamando però la sua attenzione su ciò che aveva appena detto: scoppiò a ridere. A quel punto, iniziammo a parlare in modo più tranquillo e lui si soffermò sulle mie foto di Londra e sulla tecnica utilizzata per scattarle:  immagini molto sgranate, ispirate alle foto di Sarah Moon, una grande fotografa che in quegli anni aveva firmato  la campagna pubblicitaria per i profumi di Chanel e per il negozio di Biba a Londra. Una fotografia delicata, femminile, elegante.  Chiamò la redattrice ed il giorno dopo realizzai il primo servizio, iniziando la collaborazione con Vogue Italia.

Un incontro cruciale per la sua carriera?

In una manifestazione a Roma davanti a Botteghe Oscure, vidi una ragazza con un volto davvero incredibile, una certa Isabella, e le chiesi di poterla ritrarre. Nel frattempo, Vogue inglese mi aveva notato da Vogue Italia, e mi chiamò per un servizio a Roma per Bulgari.  Utilizzai la stessa ragazza. Non sapevo che fosse la figlia di Roberto Rossellini e Ingrid Bergman, per me era Isabella e basta. Quando mandai le foto a Londra, loro mi dissero che la modella era Isabella Rossellini. Pensavano che scherzassi, ma davvero ignoravo il suo cognome. Salii di rango immediatamente. Mi trasferii a Londra dove iniziai a scattare per tutti i numeri insieme con i grandi fotografi. La mia agente di allora, Frances Grill, purtroppo scomparsa da poco, quando incontrò Isabella a New York poco dopo la guardò con intensità e le disse: “mi sa che apro un’agenzia di modelle” e così fece, con una sola modella che era lei. L’agenzia si chiama Click. Frances presentò Isabella ad Avedon che la fotografò immediatamente per la copertina di Vogue America.

La grande parola che tutti usano senza pensarci è: “bellezza”. Per lei cosa significa?

Mi rifaccio ad una definizione di bellezza espressa nella “Critica del giudizio” di Kant, in cui afferma che il Bello è la manifestazione sensibile di un’idea. Ovvero, quando tu riesci a realizzare un tuo artefatto, ad essere coerente e ad esprimere quello che effettivamente avevi in mente, in sintonia con la tua idea. Quel prodotto, quell’artefatto sarà bello. Quindi sono contro al detto: non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace, perché il Bello deve essere un valore universale e non una percezione particolare ed ego centrata di quello che a me piace. Quindi, quest’equazione è sbagliata dal punto di vista etico, filosofico e linguistico. La libertà è poter dire: quel quadro di Picasso è bello ma a me non piace. Quindi guardare la bellezza con senso critico potendola argomentare; quindi quale manifestazione di un’idea originale ed autentica.

Un auspicio per la fotografia?

Un auspicio è che le tecnologie che oggi permettono a tutti di scattare  delle foto perfette, vengano arricchite dai valori umanistici individuali affinché la fotografia continui ad essere un mezzo di espressione  per raccontare e condividere le proprie emozioni.