
Michele Placido è un artista multiforme, che non si è accomodato sulla popolarità raggiunta col commissario Cattani, ma ha continuato a sperimentare generi e ruoli, fondando anche una casa di produzione (Goldenart Production). È in scena fino al 14 aprile al Teatro Manzoni di Milano in Piccoli crimini coniugali, di cui cura anche adattamento e regia.
Realizzare questo spettacolo, quale consapevolezza le ha dato rispetto ai rapporti umani?
Il personaggio che interpreto non appartiene alla mia natura, però è una tipologia di uomo che fa parte della contemporaneità. Con la moglie (A. Bonaiuto) non hanno figli. L’autore, Éric-Emmanuel Schmitt, li coglie soprattutto in relazione a quelle che sono le crisi che toccano questo genere di coppia. Penso che si possano rispecchiare parte degli spettatori e in particolare le donne, che sono quelle che vanno maggiormente a teatro.
In una battuta lei afferma: «cammino sull’orlo di un precipizio», si è mai sentito così?
No, perché ho le mie certezze. Ho tanti amici che sono andati in analisi, io no. Provengo da una famiglia numerosa, ho sempre avuto una vita familiare corrisposta a tutti i livelli, con delle crisi, ma quello è nell’ordine dei rapporti umani. La vita è bella proprio perché ha dei momenti difficili e altri in cui tutto si ricompone, non ne farei una tragedia né un dramma.
Ha incontrato tanti maestri durante il percorso, oggi siamo un po’ orfani di questa figura…
Ho avuto dei grandi maestri come Monicelli e Strehler, non sono degli illustri magistrati o politici, sono state persone che hanno avuto vite complesse e mi rispecchio in quello. Caravaggio è stato un borderline ed è un maestro per me. La gente cosiddetta “per bene” non mi interessa perché non mi insegna nulla, sono piuttosto le persone che hanno difficoltà nel percorso della propria esistenza, con cui mi sono confidato, che mi hanno trasmesso qualcosa; ma questo lo asseriva e faceva già un signore che si chiamava Gesù Cristo, il quale si circondava di persone umili, non dei saggi che, invece, lasciava ai farisei.
In questa fase della sua vita si sente più libero come uomo o come artista?
Più vai avanti e più ti senti libero diceva Monicelli. Se devo dire qualcosa corrisponde a ciò che io sento e penso. Recentemente, incontrando dei ragazzi del Piccolo, ho raccontato loro la difficoltà di ciò che vanno a incontrare soprattutto come artisti perché il nostro mondo, in questo momento, preferisce avere tutti al servizio. Ognuno deve obbedire a un certo potere che sia quello politico o, ad esempio, legato agli editori.
Cosa non è stato ancora colto di lei?
Penso di aver avuto tanto nel mio lavoro. Sicuramente ci sono state delle cose che non ho gradito, però i miei crucci sono altri, non sono una brutta critica o non aver avuto un David di Donatello in più, queste cose le lasciamo ai giovani ricordando sempre il buon Monicelli. Chiaramente, a volte, non ricevere riconoscimento porta tanto dolore, ci soffrivo anch’io, ma adesso non è più quel tempo. La mia preoccupazione è il tempo che passa e vorrei esprimere ancora tanta vitalità.
La sua opera prima Pummarò riguardava l’immigrazione, quanto è attuale oggi?
Lo è, non tanto per quello che ho cercato di dire come regista, quanto per le immagini così forti. Oggi sono sempre più attuali perché riguardano un fenomeno che viene un po’ strumentalizzato da ambo le parti e poi il problema resta. Vedo un’impossibilità, ci sono contraddizioni fortissime perché il Sud dell’Italia ha una vicinanza molto più spesso coi paesi africani che con paesi come la Germania o la Francia. Credo che l’unica cosa che non ha ancora compreso l’Europa non è tanto accogliere o non accogliere; la questione è che noi abbiamo rubato tanto da quelle parti. Forse è venuto il tempo di restituire tutto piuttosto che accogliere. Dovremmo andare lì a ricostruire quello che abbiamo distrutto in questi secoli. Questa è la mia opinione.
Da artista cosa chiederebbe per salvaguardare i diritti dei lavoratori dello spettacolo?
Nei vari posti ministeriali e che si occupano di cultura ci vorrebbe gente che ha cultura e con esperienza in questo campo. Non vedo persone talmente colte da poter dare finalmente suggerimenti lungimiranti e creare leggi innovative soprattutto per le nuove generazioni, a cui tocca dare la loro immaginazione e fantasia alla cultura italiana contemporanea e che verrà. Non c’è veramente lo spazio per tanti protagonisti giovani che sarebbero degli ottimi artisti e mi riferisco a ogni funzione, dall’attore allo scenografo. Nel mondo del cinema e del teatro c’è un momento di stallo, si vedono sempre le stesse facce. Questo coinvolge anche me, faccio parte del sistema. Magari qualcuno mi dicesse: le diamo una scuola di campagna e vada a insegnare a dei ragazzi che non hanno la possibilità di avere qualcuno con un po’ di esperienza. In una nazione civile, nuova, dovrebbe esserci la possibilità di donare a chi è inesperto la propria capacità professionale.
Ci racconta un episodio OFF della sua vita?
Quando sono uscito dalla Silvio d’Amico avevo una cooperativa off, con Armando Pugliese abbiamo fatto Masaniello, Il barone rampante nelle tende. Erano le cooperative del ’68, in cui politica e teatro andavano quasi di pari passo, ora non c’è più questo aspetto. Adesso si pensa solo a fare spettacoli che abbiano successo. Quando hai vent’anni, con tutte le fragilità annesse, fai un altro tipo di percorso; quando diventi un signore come me, ci sono sempre delle difficoltà, però, in qualche modo, finisce una certa creatività. Speriamo di avere ancora qualche sussulto come potrebbe essere il progetto su Caravaggio a cui sto lavorando.