Renzo De Felice, il Ventennio fuori dagli schemi

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L’8 aprile di quest’anno cadrà il novantesimo anniversario della nascita dello storico  Renzo De Felice. Anche la legge finanziaria, da poco approvata, se ne è ricordata, destinando un contributo per ricordare l’anniversario. 

De Felice dedicò la sua ricerca a un approccio al fascismo storicamente fondato, facendo scuola e scompaginando  le interpretazioni che andavano per la maggiore: dall’idea crociana del Ventennio inteso  come “parentesi” e “malattia morale” alla visione  del fascismo come risultato di una “fase di assestamento” dei processi di industrializzazione, dall’interpretazione gobettiana che individuava nel fascismo un prodotto degli antichi mali d’Italia a quella  comunista, che risolveva tutto nell’idea dell’arma estrema  al servizio del capitalismo, sul punto di soccombere sotto la spinta della vittoria proletaria.

Rispetto a questo quadro d’insieme De Felice  ruppe con tutte le vecchie scuole interpretative usando i documenti, facendo parlare i fatti: il risultato più immediato fu “un libro serio, documentato, ponderato, scritto, per quanto possibile, senza pregiudizio“, come ebbe a riconoscere sul Secolo d’Italia, nel 1965, Adriano Romualdi, studioso attento e anticonformista, che vide subito nell’opera di De Felice (e si era appena al primo volume) una “prima pietra per la ricostruzione della viva immagine di Mussolini”, fino ad allora schiacciata nell’incomprensione.

«Da una parte – scriveva  Romualdi – ci sono l’ingiuria, la diffamazione, la calunnia contro un avversario la cui ombra non dà pace e tregua. Dall’altra la patetica e casalinga rievocazione dei fedeli che rischia di deformare in una oleografia borghese la personalità del più spregiudicato rivoluzionario della storia d’Italia». 

Da quel 1965 l’impegno di Renzo De Felice non ebbe né tentennamenti, né cadute di stile. Nessuna voglia di “riabilitare”, sia ben chiaro: «La mia preoccupazione -disse in occasione della contestatissima Intervista rilasciata a Michael Ledeen  nel 1975-  è quella di capire il fascismo, anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo».

Un’ovvietà, dal punto di vista di una corretta, cioè libera, interpretazione storica.

Un’eresia, per il contesto in cui De Felice si trovò ad operare. Un contesto  che male sopportava  l’idea del  Mussolini “rivoluzionario” (titolo del primo volume della monumentale biografia),  trovando via via  scandalosa  la matrice giacobina, mazziniana e sindacal rivoluzionaria del fascismo delle origini, senza parlare dell’idea del “consenso” tributato al fascismo dagli italiani (laddove la vulgata corrente aveva sempre parlato di un regime violento, che si reggeva sulla forza) e  l’avere sottolineato il grande impulso dato dal regime fascista alla modernizzazione nazionale.

Il lavoro di De Felice fu definito “storiografia afascista” e “qualunquismo storiografico“. 

Contestato perfino all’interno della sua Università, il professore continuò nel suo impegno, affiancando alla ricerca storica interventi di taglio più spiccatamente politico, come l’intervista rilasciata nel 1987 a Giuliano Ferrara sul Corriere della Sera, nella quale le norme contro il fascismo in Costituzione erano definite “grottesche” e quindi da abolire, o come il libro-intervista Rosso e Nero, con Pasquale Chessa, pubblicato nel 1995, in cui veniva smontata la “baracca resistenziale”, ivi compresa la retorica sulla partecipazione popolare alla “guerra di liberazione”.

Il risultato di questo lavorio fu che con la sua opera De Felice riconsegnò il fascismo alla storia dell’Italia, costringendo tutti, a sinistra e a destra, ad uscire dal tunnel delle incomprensioni e della retorica di parte.

Non a caso, nel 1976, uscì Intervista sull’antifascismo, di Giorgio Amendola, nella quale lo storico dirigente del PCI invitava ad una rilettura critica dell’antifascismo, in rapporto alla complessità  del suo “doppio”, il fascismo, al suo essere – per usare la definizione defeliciana – regime e movimento, coacervo complesso di culture diverse, “blocco di forze  eterogenee“.

Sul versante opposto, sempre nel 1976, sono Pino Rauti e Rutilio Sermonti a dare alle stampe una Storia del fascismo, in sei volumi, percorsa dall’idea di superare la distinzione ideologica del fascismo come fenomeno “di destra” ovvero “di sinistra”. 

La consapevolezza di fondo, nell’anno del novantesimo dalla nascita,  è che dopo De Felice non ci può  più essere spazio per la retorica di parte, sia di matrice “neofascista” che “antifascista”.

Bisogna piuttosto, sulla via tracciata, continuare a studiare e  a capire, senza perdere di vista l’esempio defeliciano ed il senso del suo impegno, riconsegnatoci incorrotto dall’anniversario d’occasione. Un anniversario da non sprecare.