Certamente profetico “L’ordine delle cose”, il nuovo film di Andrea Segre – regista e documentarista italiano – fa parte di quel tipo di cinema che non solo testimonia la realtà ma che addirittura riesce ad anticiparla. L’ordine delle cose – in sala dal 7 settembre con Parthenòs dopo la presentazione al Festival di Venezia – racconta, attraverso gli occhi del protagonista, una storia sospesa tra realtà e finzione, capace di scuotere e far riflettere. Un film, come ha rimarcato il regista, scritto ben 3 anni fa, che tuttavia arriva sul grande schermo in un momento in cui migranti, sbarchi e regole da imporre ai salvataggi da parte delle ONG hanno letteralmente invaso la cronaca quotidiana.
La pellicola, ha dichiarato Segre “si è rivelata profetica viste le polemiche sorte negli ultimi tempi circa il lavoro delle ONG, ma la sceneggiatura, per così dire “preveggente”, è solo frutto di un attento lavoro di ricerca”.
Corrado, alto funzionario del Ministero degli Interni, è un ex atleta olimpico di scherma, disciplina che ancora pratica con rigore; è un uomo riservato, ordinato sino a sfiorare la maniacalità, la stessa con cui riempie bottigliette di sabbia raccolta nelle missioni di lavoro, che sistema con dovizia in uno scaffale del salone. Vive una vita da borghese benestante, in una bella villa fuori Padova, una moglie e due figli. Il Governo lo sceglie per affrontare una delle spine nel fianco delle frontiere europee: i viaggi illegali dalla Libia verso l’Italia. Una missione difficile, soprattutto considerando le profonde tensioni e le diverse forze in campo con cui dover trattare, nella Libia post-Gheddafi. Nel suo lavoro vige una regola ferrea da rispettare: mai entrare in contatto diretto con i migranti. Ma Corrado, proprio in un’ispezione in un centro di accoglienza libico – le cui condizioni sono di profonda disumanità, più simili a carceri che a spazi di inclusione per rifugiati – si imbatte in Swada. La giovane somala ha perso il fratello, ucciso nel centro, e ambisce a raggiungere il marito in Finlandia. Il contatto con Swada manda in pezzi quel “castello di certezze”, quell’“ordine” evocato dal titolo, che Corrado si era faticosamente costruito nel tempo. Swada mette davanti agli occhi di Corrado una grande verità: i migranti sono persone, non numeri.
Il film affronta un tema di stringente attualità senza però dare giudizi. Segre esplora, da documentarista, astenendosi da un inutile pietismo, mostra senza esprimere una posizione. Azzeccatissimo il cast di prim’ordine: Paolo Pierobon calza a pennello i panni di Corrado Rinaldi – Valentina Carnelutti nel ruolo di sua moglie – affiancato da Giuseppe Battiston che interpreta Luigi Coiazzi, funzionario dell’ambasciata italiana, e da Olivier Raboutin, il collega francese Gérard che si dimette per tornare nella natia Bordeaux. Un’opera interessante, delicata, struggente, importante per gli interrogativi che pone e non per le risposte che dà.