La commedia ubriaca
In case come tombe/sepolti dall’ego del tubo catodico/sputiamo rancori/riteniamo di essere sempre nel giusto./Non consideriamo mai un’attenuante/in favore del dubbio./Ci assolviamo/senza nessun appello per l’ascolto./È ubriaca la commedia/che recitiamo da sobri/in un apparente stato di quiete.
Stiamo aspettando Godot
Il mattino ha l’orrore/che arriva al pomeriggio./Il pomeriggio si accomoda sulle macerie fino a sera./Lo spavento inghiotte il buio/che annega nella notte./All’alba stiamo aspettando Godot/non verrà/noi facciamo finta di non saperlo.
Nicola Vacca
da Commedia ubriaca, Marco Saya Edizioni, 2017.
Di seguito, la conversazione con Nicola Vacca:
In Commedia ubriaca, che chiude il trittico iniziato con Mattanza dell’incanto e proseguito con Luce Nera (Premio Camaiore 2016) – ritroviamo il decadimento antropologico dell’uomo contemporaneo. Dove sta l’equivoco che porta all’inautenticità?
“Commedia ubriaca è l’ultimo tassello di un’ideale trilogia del disagio. Con questo libro si chiude la prima parte di un discorso intorno alla decadenza. In queste poesie il colpo di grazia al mondo che brucia è fatale e irreversibile. L’avanzata verso l’abisso è inarrestabile e il baratro è la casa ultima degli infiniti punti di non ritorno che affronto a viso aperto. Alla base di tutte le cadute con cui ogni giorno abbiamo a che fare c’è la nostra indolenza, la nostra superficialità, la nostra indifferenza, il nostro nichilismo. – L’uomo è il cancro della terra – scrive Cioran. E di questa commedia noi siamo gli inautentici figuranti”.
“Alieno tanto da vaneggiamenti utopistici quanto da pure prese di posizioni estetiche, Nicola Vacca pone domande cariche di tensione, atte a decostruire le nostre convinzioni”. Così Alessandro Vergari in prefazione. Lei è intellettuale che provoca, un ‘pessimista con il vizio della ricerca’. Ci lanci una provocazione.
“Con Commedia ubriaca intendo spaccare il culo alla realtà. Il poeta ha il compito di testimoniare lo scandalo e di essere corpo e coscienza incandescente del caos che sta incendiando il mondo. Tutta la mia poesia è provocazione perché tende alla deflagrazione. Estrema la lingua, feroce il dire che senza veli affonda la penna come un bisturi nel disagio della realtà, senza preoccuparsi delle ferite e del sangue che gronda dalle parole. La poesia non è consolazione. Nelle parole non mi accontento della rassegnazione ma cerco espressioni per la lotta. La poesia è fuoco, deve svegliare ed essere scomoda”.
Si legge in epigrafe, di Emil Cioran: “Poiché la commedia non concede intermezzi, tu non hai tempo di pregare, né dove trovare riposo dentro questo insensato fremito”. Quale la menzogna più grande che l’uomo di oggi (si) racconta?
“La menzogna più grande che l’uomo si racconta oggi è la maschera che indossa fino al punto da diventare caricatura diabolica della commedia disumana che interpreta. Questo è il vero grande dramma che rappresenta la fine di ogni cosa e la nostra quasi certa estinzione. Non sappiamo più pensarci e vederci senza maschera. La tragedia è che, mentre mentiamo agli altri, stiamo soprattutto mentendo a noi, non consapevoli di affondare nella miseria esistenziale di tutte quelle bugie dietro cui ci nascondiamo per paura di mostrarci nudi e veri”.
C’è nei versi un ‘dio minore’. In un’occasione sola si legge: “Questo tempo di demoni / dice che per amare Dio / bisogna sterminare gli uomini.” Non c’è dunque spazio per la salvezza dell’uomo, pur privata che sia?
“Come lei sa, la mia poesia gioca molto con i paradossi e con il pensare per paradossi. In questo verso – paradosso metto in evidenza la mia avversione nei confronti di tutte le fedi e parlo di una mattanza di un dio capovolto e di tutti i giorni che viviamo in un massacro in cui in nome di una fede assistiamo appunto alla morte in diretta. Non c’è molto da aggiungere. L’odio della fede uccide gli innocenti. In nome di un Dio oggi si commettono crimini, come testimonia la follia fondamentalista che in Commedia ubriaca, e non in maniera tenera, affronto”.
Nel libro è presente il richiamo ai fatti di Parigi del 2015. Orrore, ma pure ferma ribellione alla paura che esplode in un grido per la libertà. Si può ancora parlare di “mondo libero”?
“Non so se possiamo dire di vivere in un mondo libero, ma certo di fronte alla barbarie abbiamo il dovere di chiamare il terrore con il proprio nome, senza avere paura alcuna di chiamare a difesa della nostra libertà in pericolo quei valori fondamentali che hanno fatto grande l’Occidente. Tutti i giorni in un massacro è la prima sezione del libro ed è dedicata proprio a questo lungo periodo di terrore che investe la nostra Europa”.
Nella poesia Stiamo aspettando Godot, il richiamo al teatro di Samuel Beckett ci ricorda la metafora della condizione esistenziale di ogni uomo che si interroga aspettando una risposta, qualcuno che gli dica il perché della vita qui. Come mai l’uomo non si rassegna al fatto che non arriverà alcun Godot?
“L’assurdo nelle sua manifestazione terribile non smetterà mai di possedere le nostre esistenze. Continueremo a aspettare Godot, nello stesso modo in cui continueremo a essere ubriachi in questa commedia che recitiamo, consapevoli che da sobri capiremmo di essere il vero cancro della terra”.